È in corso a Tunisi un vertice sotto l’egida dell’Onu dove sono stati convocati ben 75 rappresentanti della frantumata realtà libica per proseguire la strada, dopo il cessate il fuoco tra Tripoli e Tobruk, che dovrà portare a un Consiglio di presidenza unitario, preludio alle agognate elezioni nazionali in grado di dare un governo al paese. Ma anche questa volta sembra difficile arrivare a un documento congiunto fra le parti. Di fatto sono emersi tre blocchi che chiedono ciascuno di ottenere la carica di primo ministro del prossimo governo: la città di Misurata, l’autorità di Tripoli e le città della costa occidentale. Non mancano poi le richieste della parte tribale del paese, in particolare i Tuareg, che chiedono maggiore rappresentanza. “È difficile che anche questa volta si ottenga qualcosa di concreto – sottolinea il generale Marco Bertolini, già comandante del Comando Operativo di Vertice Interforze e della Brigata Folgore in molte missioni internazionali, dai Balcani all’Afghanistan –. Quello che manca alla Libia è una leadership forte in grado di prendere in mano il paese, mettendo d’accordo tutte le parti in gioco”. Per Bertolini, l’arrivo di Biden alla Casa Bianca “porterà al ritorno della politica di Obama, principale sostenitore delle Primavere arabe che hanno portato il disastro in Libia e in Siria. L’impressione è che una Libia turbolenta faccia comodo a chi l’ha voluta ridurre così”.



Il vertice di Tunisi si è già inceppato di fronte alle divisioni interne delle varie fazioni libiche. Anche questa volta non si troverà un accordo? In che modo è possibile risolvere una situazione così intricata?

La Libia ha bisogno di una leadership forte, che possa unire le sue varie anime, una leadership che oggi non c’è. Il paese risulta diviso essenzialmente in due parti, quelle che si sono combattute fino a poco tempo fa, ma anche la fazione occidentale che ha avuto l’investitura dell’Onu è divisa. La capitale è Tripoli, ma la città forte che assicura sicurezza alla stessa Tripoli è Misurata. C’è poi la regione del Fezzan, quella sahariana, enorme e popolata da tribù come i Tuareg, che pure accampano i loro diritti.



Solo Gheddafi era riuscito a tenere unite tutte queste realtà?

Siamo davanti a una macro-divisione della Libia in due entità delle quali è difficile venirne a capo. In una di queste poi, quella occidentale, ci sono altre divisioni che sono dovute alla presenza di Misurata, che si sente sotto rappresentata da un punto di vista del potere legale. Però ha una grande importanza: è anche quella che ha combattuto contro l’Isis a Sirte.

Le interferenze straniere quanto contano in questa divisione?

Ormai è rimasta solo la Turchia, che potrebbe essere un elemento che può favorire una soluzione, se fosse in grado di proporre un leader forte accettato dalle parti in causa. Ma dubito che sia in grado di fare questo.



Perché?

Potrebbe essere un ulteriore elemento di complicazione. La Turchia ha un suo programma preciso e non si fa influenzare dalle velleità delle singole realtà libiche. Ha un programma di larghissimo respiro, impegnata come è nel Caucaso, in Siria e nel Mediterraneo orientale.

A complicare il quadro va anche segnalato il fatto che il presidente di Tripoli, al Serraj, dopo aver detto che avrebbe dato le dimissioni a fine ottobre ha invece fatto marcia indietro. Come mai?

In questo fare un passo indietro rispetto al passo indietro annunciato si dimostra uno statista, che si preoccupa di quello che succederà dopo di lui e si rende conto che non c’è niente di sufficientemente forte. Anche Serraj non è forte come si immagina e l’unica arma che può brandire è questa investitura dell’Onu, che tuttavia non è sostanzialmente servita a niente. Se non ci fossero state Misurata prima e la Turchia dopo, Haftar lo avrebbe fatto fuori.

Con Biden alla Casa Bianca ritiene che gli Stati Uniti possano intervenire in qualche modo?

Biden applicherà una politica diversa in tutta l’area. Non dimentichiamo che le Primavere arabe, da cui è nato anche l’attuale caos libico, sono state supportate da Obama, di cui Biden era vicepresidente, così come in Siria. Obama era a capo di un Occidente che appoggiava nei fatti i ribelli contro Assad. Il ritorno in sella di Biden porterà nuovamente in Siria a una pressione contro Assad, che era stato graziato da Trump, mentre in Libia vedremo. Anche prima gli Stati Uniti con Obama non avevano fatto niente per risolvere il problema. Una volta lanciata la disgregazione libica, l’hanno lasciata andare avanti senza preoccuparsene. Anzi, hanno dichiarato che era un problema europeo, citando pure l’Italia e chiamandosi fuori, perché – dicevano – dovevamo risolverlo noi. Penso che una Libia turbolenta faccia comodo a chi l’ha voluta ridurre così.