Stabilizzare la Libia. È il comune intento di Stati Uniti ed Italia, stando alle dichiarazioni del ministro degli Esteri Di Maio, in visita a Washington, e del segretario di Stato Usa Anthony Blinken. Ma non sembra un’impresa facile. Dalla visita in Libia di Draghi e dal “sofagate” che ha visto Ursula von der Leyen rimanere in piedi davanti a Erdogan, c’è stata un’accelerazione politica che Carlo Pelanda, economista ed esperto di politica estera, descrive come “una sorta di guerra fredda che si sta scaldando” tra Roma e Ankara. Con gli Usa nel ruolo di spettatori non imparziali e dove gli eventi sono meno casuali di quel che appare, a cominciare dalla singolare dichiarazione di Draghi sui “dittatori di cui c’è bisogno”.



“Condividiamo la preoccupazione per la presenza di forze straniere” in Libia, ha detto Di Maio dopo avere incontrato il sottosegretario di Stato Blinken. Come interpretare queste dichiarazioni?

L’Italia ha interesse a stabilizzare la Libia e ha chiesto il supporto degli americani, i quali, a parole, lo danno volentieri.



Solo a parole?

Le parole dell’America contano. Gli Usa sono tornati a fare politica nel Mediterraneo già da alcuni mesi. Non è chiaro tutto ciò che è accaduto, ma ne vediamo le conseguenze.

Quali sarebbero?

Il freezing, il congelamento delle posizioni. Altrimenti in Libia ci sarebbe ancora la guerra.

Quali dettagli ci mancano?

Non sappiamo cosa sia successo tra Usa e Qatar, massimo sostenitore dell’islam politico. Ha supportato la resistenza contro la presenza russa ed ha rapporti stretti con la Turchia. Adesso si passa alla fase due.

Ma si può pensare di estromettere dalla Libia i mercenari russi e turchi? Non le pare improbabile?



Possono anche restare dove sono. Prioritario non è mandare via queste milizie, ma far cessare gli scontri. Anche l’America adesso è convinta che quella guerra debba finire.

Qual è il costo della stabilità?

Questa è la domanda giusta. Pace in Libia vuol dire accordo tra le fazioni, circa 200, di cui una dozzina le principali. Un accordo vuol dire denaro. Cessazione dei combattimenti significa distribuzione dei proventi del petrolio. Anche a tutti quelli che chiedono soldi per non sparare. Chiediamoci: la dichiarazione proveniente da Washington – dopo la visita di Draghi – era veramente diretta ai mercenari russi e turchi o piuttosto alle bande interne? Io dico ad ambedue.

La stabilizzazione implica anche una presenza militare dell’Italia sul suolo libico?

No, sarebbe controproducente. Anzi, sarebbe una trappola. Se l’Italia mettesse gli scarponi a terra darebbe una scusa ai locali per restare armati e alle truppe esterne per continuare a fare ciò che hanno fatto finora.

Allora come si fa a rendere cogente questa linea politica?

Facendo operazioni riservate, militari e di intelligence, aiutando i politici amici e armando bene le milizie amiche. Ovviamente con il contributo americano.

Qual è l’interesse italiano in Libia?

La presenza di un governo con cui fare business, che controlli le coste e che ci dia le basi per le nostre truppe speciali quando devono fare operazioni coperte.

Non mi ha citato la presenza e l’operatività dell’Eni.

Non ce n’è bisogno, l’Eni sa benissimo da solo cosa fare.

Come vede le relazioni tra Italia a Turchia?

Tra Roma e Ankara è in atto un braccio di ferro, una sorta di guerra fredda che si sta scaldando. Non a caso Erdogan ha costretto Beibah e il suo governo a presentarsi ad Ankara al completo per siglare protocolli di intesa e riconfermare le intese sulle zone economiche esclusive. La dichiarazione americana sulla necessità di normalizzare la situazione in Libia è importante perché mette limiti alle pretese di Erdogan.

Secondo alcuni le parole di Draghi sul caso von der Leyen, a proposito di “questi dittatori di cui però si ha bisogno per collaborare”, sono state improvvide.

Non si è trattato di una reazione sbrigativa. Draghi ha replicato esattamente le parole dette da persona appropriata negli Stati Uniti.

Che cosa intende?

Quel termine ha implicazioni che non mi sembra siano state rilevate. La Turchia è nella Nato, è un alleato, però Erdogan è un dittatore. Se è classificato come dittatore, gli Stati Uniti possono esercitare pressioni esterne di regime change.

Come?

Interferendo sul consenso in vista delle prossime elezioni, finanziando i partiti di opposizione, facendo operazioni mirate sulla lira turca. Il messaggio dissuasivo era già arrivato a Erdogan da parte americana e Draghi lo sapeva. Non a caso dopo quella dichiarazione Ankara si è difesa replicando che Erdogan è un presidente eletto.

Per tutta risposta Erdogan ha frenato gli affari tra Turchia e Italia. Come commenta?

Erdogan, che sa di rappresentare una posta politicamente rilevante, ha voluto dire a Washington che la Turchia sarà amica dell’America se l’America non sostiene l’Italia.

Quanto ci danneggia?

La competizione c’è, si tratta di minimizzarla per non perdere troppo business.

Qual è il suo scenario?

È prematuro dirlo perché si tratta di una partita aperta. È tutto in movimento, non a caso la Francia osserva e tace. Quando la situazione sarà più chiara, Parigi prenderà un’iniziativa. Nel frattempo l’importante per Macron era mandare in porto le forniture di armi all’Egitto.

Quanto possono valere i patti con un governo libico a tempo che fa accordi con tutti?

I libici si barcamenano. Lei e io al loro posto faremmo lo stesso.

La questione turca?

Sarà risolta con le prossime elezioni. La svalutazione continua della lira turca è pericolosa, d’altra parte l’implosione della Turchia sarebbe una bomba atomica.

Perché lasciar fare Erdogan fino a questo punto?

Incanalarlo si è rivelata un’operazione difficile. Ci sono anche vantaggi: l’asse tra Israele, Egitto, Cipro e Grecia in fondo è opera sua.

Nel complesso, come giudica questa situazione?

Molto positivamente. Nel Mediterraneo si è raggiunto un equilibrio di potenza che si regge sulla paura. Per questo la situazione è ideale. Nella geopolitica quando c’è la paura ci sono gli accordi e la pace.

Non le chiedo un’opinione sull’Italia. Siamo stati senza politica estera per un anno e mezzo.

Invece ci siamo comportati tutto sommato bene. La crisi della politica ha permesso ai buoni funzionari di emergere e di supplire. Il nostro ministero degli Esteri ha fatto un buon lavoro, i nostri servizi splendido, i militari pure. Abbiamo conservato una testa di ponte importante, Misurata; abbiamo contribuito a stabilizzare, anche grazie all’Eni. C’è un’altra novità positiva delle ultime ore.

Quale?

È stata consegnata all’Egitto la seconda fregata Fremm, che era a rischio per le motivazioni che sappiamo. L’Egitto è lo snodo decisivo, sia per una strategia italiana nel Mediterraneo, sia per una soluzione in Libia che non sia il solo congelamento della forze in campo.

(Federico Ferraù) 

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