Gli occhi del mondo ormai sono puntati su Gaza e Israele, ma lo scontro tra i grandi contendenti, Usa da una parte e Cina-Russia dall’altra, si tiene anche su altri terreni. Quello della Libia, ad esempio, è decisivo anche per l’Italia: mentre Mosca cerca di sfruttare il più possibile i suoi agganci con Haftar, signore della parte Est del Paese, la Cirenaica, Washington punta a una riunificazione del Paese proprio per evitare che le debolezze dovute alle divisioni vengano utilizzate a proprio vantaggio dai suoi nemici storici. Ecco perché, spiega Mauro Indelicato, giornalista de Il Giornale e di Inside Over, i russi cercano di realizzare in Libia il loro obiettivo di avere un’altra base navale nel Mediterraneo e vogliono creare un corpo armato africano russo che prenda il posto della ormai defunta Wagner, destinata all’estinzione dopo la morte del suo capo storico, Evgenij Prigozhin.
Gli alleati cinesi, invece, da tempo impegnati in Africa a realizzare infrastrutture, vogliono mettere le mani sulla ricostruzione di Derna. Gli Stati Uniti, però, molto più presenti nel Mare Nostrum per presidiare le acque vicine a Israele, questa volta sembrano intenzionati a dire la loro, sfruttando il fatto che Haftar è anche cittadino americano.
Un contesto in cui l’Italia ha un ruolo, in linea con gli Usa: far tornare il Paese sotto un unico governo, anche per controllare meglio i flussi migratori. Non sarà facile e lo dimostra la fallita operazione di Dbeibah, leader della parte Ovest del Paese, che non è riuscito a mettere sotto controllo la zona del valico di Ras Jadir perché osteggiato dalle tribù locali.
I russi, oltre a un porto che faccia da punto di riferimento per la loro flotta navale, in Libia vogliono costituire un corpo armato africano russo: cercano di allargare la loro zona di influenza mentre il mondo pensa principalmente alla guerra in Palestina?
La Libia è terreno di scontro tra Usa e Russia. Gli Stati Uniti puntano alla riunificazione del Paese perché in questo modo venga trascinato verso l’orbita occidentale. Da molti anni hanno messo da parte il dossier libico, ma hanno le carte per rimontare, la prima delle quali è la cittadinanza americana di Haftar: ha vissuto in Virginia per più di trent’anni, quando era in esilio, nel periodo in cui governò Gheddafi. I russi hanno la speranza opposta: una spaccatura nel Paese che li aiuti a penetrare sempre di più il territorio, anche per avere una seconda base nel Mediterraneo dopo quella siriana di Tartus.
I russi hanno come obiettivo anche quello di consolidare la loro presenza armata. Il ruolo prima svolto dalla Wagner ora verrà assegnato a qualcun altro?
È in atto un processo di sostituzione della Wagner in Libia: i russi sono presenti da almeno cinque o sei anni con la compagnia militare privata che faceva capo a Prigozhin. Ora sappiamo che fine abbiano fatto sia la società che dava lavoro ai contractor che il loro leader. Ecco perché Mosca vuole sostituire questa struttura con quella di un corpo militare misto, con combattenti di Haftar e altri russi, possibilmente reclutati proprio tra i soldati della Wagner. Stanno rimodulando la loro presenza, sempre nell’ottica di una sfida con gli Usa.
Oltre che su Haftar gli Stati Uniti su cosa possono contare?
Possono esercitare la loro influenza nel Mediterraneo, diminuita nel tempo ma non scomparsa, visto che hanno rafforzato la loro presenza con molte navi davanti alle coste di Israele. Stanno tornando ad avere una posizione comunque importante. Sanno poi che Haftar non è una persona così fedele ai suoi alleati: gli stessi russi hanno avuto problemi con lui, fino quasi a scaricarlo perché ha sempre fatto di testa propria. Gli americani sanno che possono portarlo dalla loro parte.
L’alleanza di Haftar con i russi non è poi così solida?
Presenta molte incognite, una delle quali è il carattere di Haftar: nel gennaio 2020, durante la conferenza sulla Libia ospitata da Angela Merkel a Berlino, a un certo punto ha spento i suoi telefonini, nessuno riusciva più a trovarlo: si è scoperto che era in procinto di abbandonare il vertice. Nel 2018 se ne andò improvvisamente da Mosca dove era stato invitato per un summit, irritando i russi. Da questo punto di vista assomiglia molto a Gheddafi, maestro dei colpi scena nei consessi internazionali. Inoltre ha quasi 80 anni, non sta benissimo di salute, pur essendo l’unico elemento unificatore del suo esercito. Morto lui i figli, che pure stanno assumendo posizioni di comando, non credo possano dimostrare lo stesso carisma. Una eventuale fuoriuscita di Haftar potrebbe rimescolare le carte.
Intanto si parla di un incontro di Ali al Saidi, ministro dell’Economia del governo dell’Est libico, con un Consorzio di cui fa parte la China Railways International Group Company, in vista della ricostruzione di Derna dopo l’alluvione dovuta anche alla rottura di due dighe. Pechino pensa a un ritorno in grande stile in Libia, dove ha già lavorato in passato?
I cinesi sono molto impegnati nella costruzione di diverse infrastrutture in Africa: basta pensare all’alta velocità fra Nairobi e Mombasa, alla ferrovia in Etiopia, alla ricostruzione in Angola. Derna è andata in buona parte distrutta, i libici non hanno la forza per ricostruirla, così come non ce l’hanno i russi che già hanno dovuto pensare alla riedificazione per esempio di Mariupol, dove hanno speso molti soldi. La Cina, quindi, torna in lizza ed è un ritorno che a livello politico farebbe molto rumore. Per il momento, comunque, siamo a livello di rumors. Potrebbero dare un contributo, esattamente come potrebbero fare altri Paesi, compresa l’Italia, che non è assente dall’Est della Libia: a Bengasi c’è un consolato. Credo che su Derna interverranno non solo i cinesi ma anche i russi.
Dall’altra parte anche Dbeibah ha le sue gatte da pelare: la missione nella quale aveva impegnato le sue milizie per mettere sotto controllo la zona di Garian e del valico di Ras Jedir è fallita per l’opposizione delle tribù locali, in particolare degli Amazigh. Le tribù in Libia contano ancora così tanto?
Le divisioni tribali incideranno sempre: siamo di fronte a una società che si è sempre fondata su queste differenze. Anche Gheddafi, dipinto spesso come nazionalista, non è riuscito a consolidare una vera identità nazionale: in realtà era panarabo, per lui che ci fosse o meno lo Stato libico era la stessa cosa. Durante il suo potere erano gli equilibri fra le tribù a regolare la situazione. Questi scontri, poi, sono avvenuti in un’area che è quasi terra di nessuno: Haftar paga alcuni gruppi tribali e rivendica il possesso del territorio, ma non ha un controllo capillare. Quando Dbeibah vuole rivendicare certe aree arriva con i suoi miliziani: alcune volte le operazioni riescono, altre, come questa, falliscono. È una zona della Libia nella quale più delle altre si avverte un vuoto di potere.
Sono scontri, quindi, che non costituiscono una novità. Ma cosa significano in questo contesto?
Sono indice del fatto che la tensione fra Est e Ovest sta aumentando, proporzionalmente a quella fra americani e russi.
Il processo di riunificazione al quale l’Italia sembrava aver contribuito dopo gli incontri con Dbeibah e Haftar è ancora lungo? Quale può essere adesso il ruolo del nostro Paese?
L’Italia può salvaguardare il ruolo che ha ora in Libia: sono stati siglati importanti contratti economici. Non per niente siamo il primo partner commerciale del Paese. Nel suo piccolo deve continuare a sostenere l’unificazione nazionale, anche dal punto di vista culturale. Poi ci sono processi sui quali possiamo avere poco controllo: nel momento in cui la Libia entra nell’orbita di una lotta tra americani e russi, anche se possiamo sfruttare i buoni rapporti con Washington, i margini di intervento sono risicati. Questo non vuol dire che dobbiamo rimanere fermi.
Gli obiettivi italiani sono quelli degli Usa?
Da un punto di vista politico sì, perché anche l’Italia vuole la riunificazione del Paese. Sono diverse le motivazioni. Gli Stati Uniti bloccherebbero la crescita dell’influenza russa, l’Italia ha bisogno delle risorse libiche e di una proiezione in Africa che la Libia può garantire.
L’Italia potrebbe avere interesse anche a controllare meglio i flussi migratori? Il valico di Ras Jedir, per esempio, è una zona di passaggio delle persone che puntano a trasferirsi in Europa con i barconi.
Quest’anno la rotta tunisina ha creato più grattacapi, ma quella libica non si è mai ridimensionata. Avere una Libia stabile per l’Italia significa avere maggiori garanzie su questo fronte.
(Paolo Rossetti)
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