Ursula von der Leyen, con l’inconsueta modalità di un videomessaggio, ha annunciato il primo ottobre 2020 che la Commissione europea apriva una procedura d’infrazione contro il Regno Unito, inviando a Londra una lettera di costituzione di “messa in mora”. L’accusa è quella di violare l’Accordo di recesso (Brexit) e in particolare il Protocollo sull’Irlanda. La violazione risiede nella proposta di legge britannica sul mercato interno, che per il solo suo annunciarsi violerebbe l’obbligo di buona fede stabilito nello stesso Accordo di recesso. La preoccupazione britannica, che si esprime in forme conflittuali nel seno del partito conservatore e soprattutto negli scontri continui tra i partiti storici irlandesi, è quella di sostenere l’obiettivo di pace e riconciliazione sancito dall’accordo del Venerdì Santo del 1998 e tutelare i risultati, i benefici e gli impegni del processo di pace nell’isola di Irlanda.
Quell’accordo è un bene prezioso non solo per il Regno Unito e le due Irlande del Nord e del Sud, ma per tutta l’Europa. Poneva fine a una catena di atti sanguinari e di un odio che pareva senza fine. Esso è divenuto disgraziatamente oggetto delle discussioni in merito alla Brexit per l’ostinazione degli Stati dell’Unione Europea di non riconoscere le specificità storiche di un conflitto che non poteva riaprirsi proprio sul punto più delicato: i confini tra le due Irlande.
È proprio questo punto che, invece, è stato oggetto dell’incomprensione della tecnocrazia europea e degli Stati dominati di quest’ultima, i francesi in primis. Un accordo era stato raggiunto con Theresa May e poi lo si era cambiato con l’ascesa discussa ma legittima di Boris Johnson alla carica di primo ministro. Ma ciò che conta è continuare a non avere alcun confine fisico tra le due parti dell’isola d’Irlanda, rispettando quanto disposto nell’accordo del Venerdì Santo. Confine fisico e dogana vengono invece spostati in prossimità del mare d’Irlanda: l’applicazione dei dazi europei e i controlli sul rispetto della regolamentazione Ue (come ad esempio i controlli fitosanitari) vengono dunque spostati ai porti che collegano la Gran Bretagna all’Irlanda del Nord.
Sulla spinosa questione dell’Irlanda del Nord anche l’accordo di Theresa May evitava la creazione di una frontiera fisica tra i due territori irlandesi. Ma per ottenere questo obiettivo prevedeva appunto che l’intera Gran Bretagna restasse nell’unione doganale con l’Ue. Applicando sostanzialmente gli stessi dazi e la stessa regolamentazione dell’Ue in tutto il Regno Unito rendeva superflui i controlli doganali sia al confine tra le due parti dell’Irlanda, sia nel mare d’Irlanda. Johnson si trova invece costretto a creare una dogana nel mare d’Irlanda. Una soluzione che ha trovato il secco no degli unionisti nord-irlandesi, che temono che in futuro la propria regione sia sempre più distaccata da Londra e si rivolga invece verso Dublino e l’Ue.
Per cercare di superare queste resistenze il nuovo accordo di Boris Johnson – anche in questo caso diversamente da quello di Theresa May – prevede il coinvolgimento dello Stormont (il Parlamento dell’Irlanda del Nord) e questo è un punto decisivo ma ricco dei pericoli dell’instabilità. L’assemblea legislativa dovrà infatti pronunciarsi in merito al mantenimento dell’accordo quattro anni dopo il periodo di transizione (ovvero verso la fine del 2024). In caso di voto negativo, Londra e Bruxelles avrebbero due anni di tempo per decidere il da farsi. Per confermare l’accordo per altri quattro anni, all’assemblea di Belfast basterà un voto a maggioranza semplice (se otterrà invece una maggioranza ben più ampia l’accordo resterà in vita per altri otto anni).
Quello della maggioranza semplice non è un dettaglio e rischia di porre in discussione l’intero accordo. Questo perché gli unionisti del Nord chiedono che sia rispettato quanto previsto dall’accordo del Venerdì Santo, ovvero che sulle decisioni più importanti lo Stormont adotti il cosiddetto “cross-community support”, un diritto di veto in capo agli uni o agli altri. Un veto che né Johnson, né l’Ue intendono concedere agli unionisti.
Insomma, si tratta di una questione squisitamente britannica e irlandese e si tratta di accordi e mutamenti degli accordi che derivano dal voto di un Parlamento che ha fatto la storia del costituzionalismo mondiale e ha insegnato a tutto il mondo che cosa sia il regime rappresentativo fondato sui partiti come comunità di destino e come tali sottoposti al soffio dello spirito dei popoli, alle dinamiche delle classi politiche, alla circolazione delle élite.
La tecnocrazia europea opera in regime non giuridico ma di potere situazionale di fatto. Non ha legittimazione alcuna se non quella dei trattati internazionali e non è mai stata sottoposta al primato della legge (e si osa parlare di Stato di diritto!). L’Unione Economica Europea non ha una Costituzione e quindi non ha un potere compulsivo, ossia giuridico, di diritto e legittimato dal voto popolare. I conflitti economici sulla pesca, sul traffico delle merci e anche quelli recentemente insorti sui vaccini con un primato straordinario delle imprese britanniche unite a una grande università come Oxford (accordo con cui anche un’intelligente impresa italiana ha aderito meritevolmente), tutti questi temi non possono costituire un motivo di interferenza con il voto di un Parlamento che è sacro nella storia del mondo.
Il travaglio britannico e irlandese va rispettato: non va aizzato di nuovo l’odio e il conflitto endemico, come fanno le tecnocrazie ignoranti della storia.
L’Europa è destinata a decadere senza il Regno Unito, vista la debolezza atlantica della Francia dopo le guerre del primo Settecento in Nord America e in India combattute contro lo stesso Regno Unito che ne sortì vincitore. E invece l’Europa potrebbe conquistare quel ruolo globale di cui discettano alcuni che credono che la storia sia finita e la terra sia piatta solo divenendo una potenza sì continentale, ma talassocratica. Come fare senza il Regno Unito?
Calma, dunque, ed evitiamo le “messe in mora”. La storia non è un pacco postale.