I Trattati europei hanno indotto nel funzionamento dell’Unione Europea gravi squilibri. Durante il suo mandato alla guida della Bce, Draghi è stato accusato, soprattutto da parte tedesca, di una conduzione “creativa”: dopo il “whatever it takes”, che salvò la moneta unica nel 2012, sono arrivati il Quantitative easing, la mai utilizzata Omt, e infine – appena evocata nell’ultima conferenza di commiato – la Mmt, Modern monetary theory. Ma la “creatività” di cui è stato accusato Draghi è dipesa dalla scarsità di strumenti tecnici a disposizione a fronte delle contraddizioni, dovute alle lacune strutturali derivanti dalla costruzione dell’euro, in cui è incorso il modello politico-economico imposto dai Trattati agli Stati europei, spiega Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale nell’Università Cattolica di Milano.



Che ruolo ha giocato la Bce nel contesto economico e politico di quest’ultimo scorcio di Unione Europea?

La Bce è stata l’istituzione che ha permesso al marchingegno sbilenco costruito dai Trattati di andare avanti e stare in equilibrio, almeno dal 2011, e cioè da quando Draghi è succeduto a Trichet. In un certo senso Draghi, in tutti questi anni, è stato un equilibrista costretto a camminare su una corda sottile, mentre tutt’attorno tiravano i venti della peggior crisi dai tempi del 1929. Gli è toccato prendere decisioni in un contesto di interessi di portata enorme, ma perennemente in conflitto fra loro.



Un esempio di tale “conflitto” di interessi?

Questi interessi si collocavano tanto sul piano intraeuropeo, dominato dal conflitto tra creditori e debitori, quanto su un piano mondiale, nel momento in cui ha dovuto calibrare il tasso di cambio dell’euro sul dollaro, prima in una fase di calo o comunque di rallentamento del commercio mondiale, e poi nella fase di guerra commerciale aperta dagli Usa per riequilibrare i rapporti con la Cina. Ci rendiamo conto della situazione in cui si è trovato e delle decisioni che ha dovuto prendere in questi anni?

Cosa si può dire del periodo precedente la presidenza Draghi?



Sostanzialmente, prima della crisi greca e della passeggiata di Deauville, quando si è deciso che gli Stati potevano fallire, il triangolo magico disegnato nei Trattati costruito su tasso di cambio, spesa pubblica e base monetaria aveva funzionato in modo accettabile e nessuno si lamentava troppo. Anche se, in realtà, l’applicazione uniforme del modello tedesco di governo dell’economia ad un continente tanto diverso per geografia, culture, economie, e cicli economici stava portando all’accumulo di squilibri fortissimi.

Vediamoli in sintesi.

Basta pensare, anche prima della crisi greca, a quello che è successo alle cosiddette “tigri baltiche”: economie piccole e poco diversificate, improvvisamente investite da flussi finanziari mai visti prima che hanno mandato quei tre paesini in bolla immobiliare e in deficit sull’estero. Fino a quando la bolla non è scoppiata nel 2007-08, come si sapeva sarebbe scoppiata. Il risultato? Qualche anno di vacche grasse, tassi di crescita vertiginosi, sogno europeo realizzato con mutui per la casa e al consumo a tassi ridicoli, fino al giorno in cui è arrivato il credit crunch mondiale del 2008. E i lavoratori si sono sentiti dire che o accettavano un taglio del 50% dello stipendio o potevano andare a casa.

Si è trattato di una crisi da debito pubblico?

No, è stata tutta una crisi da debito privato e deficit delle partite correnti. Si dice che adesso i baltici sono usciti dalla crisi e, dopo un calo del 10-15% del Pil in 12 mesi, hanno i parametri a posto, e possono andare in giro a fare lezioncine su quanto bene funzioni il modello europeo. E vengono usati a questo scopo dai loro mandanti.

E dove sta il problema?

Il problema è proprio che la crisi è stata gestita secondo il modello europeo: per cui alla libertà di circolazione dei capitali doveva corrispondere la libertà di circolazione dei lavoratori. Molto bello dal punto di vista del modello, meno da un punto di vista sociale. La Lituania ai tempi aveva poco meno di 4 milioni di abitanti. Adesso ne ha poco più di 2,5. E non è che siano morti tutti di colpo. Semplicemente il tasso di disoccupazione si è abbassato per una massiccia emigrazione della popolazione in età da lavoro verso Regno Unito, Germania, Svezia e Norvegia. Questo è un lato mai messo troppo in luce del modello europeo di gestione delle crisi. E non è che questo sia colpa dell’euro.

Di chi sono le responsabilità?

Ai tempi i baltici avevano ancora le loro monete, e solo nel 2014/15 sono entrati nell’euro. L’euro semmai pone problemi ulteriori, che, ad esempio, ha conosciuto la Finlandia, che l’euro ce l’aveva. Il punto è che squilibri del genere si sono avuti un po’ dappertutto, in Spagna, Francia e anche in Italia. È che per comporre il quadro bisognerebbe esaminare ogni singolo paese e non c’è tempo. Bisogna andare per esempi e approssimazioni, anche se questo indebolisce il discorso.

Tornando a Draghi?

Mi sembra che questo esempio dia la misura del mosaico di situazioni che si è trovato quotidianamente di fronte Draghi, e la complessità delle valutazioni che doveva compiere, in un board Bce che era condizionato dagli interessi delle Banche centrali nazionali. E con una scoraggiante scarsità di strumenti tecnici a disposizione.

Questo deriva dal fatto che, come si ripete, la Bce, diversamente dalla Fed, non ha nel suo statuto la tutela del livello di occupazione?

Sì e no. Nei Trattati non c’è scritto che la Bce deve curare il livello di occupazione, per il semplice fatto che il livello di occupazione doveva essere un risultato del funzionamento del triangolo magico. Non doveva essere un obiettivo, ma un risultato naturale della buona applicazione del triangolo, come si era avuta nella Germania del dopoguerra. Per questo aveva ragione qualche anno fa Fabio Merusi a dire che alla fine, nel modello tedesco, il triangolo magico diventava un quadrato: perché bisognava tenere d’occhio il livello di occupazione come un indicatore del buon funzionamento del sistema. Il livello di occupazione non è stato codificato nei Trattati, perché scrivere nei Trattati che la Bce avrebbe dovuto perseguire la piena occupazione avrebbe distorto il funzionamento del modello, basato sul disciplinamento dei comportamenti pubblici e privati, tipico dell’ordoliberismo.

L’obiettivo non era l’occupazione o la crescita. L’obiettivo era l’applicazione del triangolo.

Esatto. E questo ha portato agli sfaceli sociali di cui si diceva prima. Insomma, non è che i Trattati siano stati scritti da aguzzini che perseguivano disoccupazione e migrazioni di massa. Tant’è vero che all’art. 3 co. 3 del TUE si parla, in modo molto coerente, di “un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione”. È che la piena occupazione era un risultato atteso e un indicatore di risultato da monitorare, non un obiettivo da realizzare. In altre parole, sarebbe dovuta arrivare da sola. Dalla cattiva comprensione di questa differenza nasce la querelle Bce-Fed. Per i tedeschi era tutto chiarissimo, perché, in quel sistema, ci vivevano dal dopoguerra e per loro aveva funzionato. Per gli altri meno. Dopodiché, siccome alla difesa del modello ha preso a corrispondere la conservazione di una posizione di egemonia politica e un surplus commerciale mostruoso, la situazione si è cristallizzata. Dogmatismo e opportunismo, quando si sostengono a vicenda, diventano un cocktail micidiale. E così è stato.

In questa situazione ha agito la Bce di Draghi. Come?

Ha fatto da snodo e ammortizzatore del sistema, e per svolgere questo ruolo si è dovuta inventare cose che nei Trattati non esistevano. Prima con le operazioni di finanziamento a lungo termine dei sistemi bancari (Ltro, Long term refinancing operation), e poi con il programma Omt (Outright monetary transactions). Il che le ha attirato pesantissime critiche, tanto tra i Piigs, come tra i core. E qui bisognerebbe ritornare a parlare del Mes.

Che cos’è il Fondo salva-Stati o Meccanismo europeo di stabilità, sotto questa luce?

Nelle settimane scorse se ne è parlato troppo, e troppo di colpo, come se fosse un oggetto misterioso comparso all’improvviso nel dibattito politico italiano, e non uno dei tanti infelici tentativi di rappezzare un sistema disfunzionale. È una colpa nostra, ed è un merito di chi ha finalmente posto il problema. In realtà una vicenda del genere si è avuta anche per il Whatever it takes del luglio 2012, e per il programma Omt di settembre 2012. Che sono andati in perfetta sincronia con il processo di ratifica e di scambio delle ratifiche dei Trattati Fiscal Compact e Mes.

In che senso il Whatever it takes colmava una lacuna derivante dalla costruzione dell’euro?

Vede, di solito le cose più obiettive e intelligenti sull’Europa, non vengono dall’Europa, ma dalla Gran Bretagna. E non parlo dell’Inghilterra politica: parlo dell’Inghilterra che sta dentro la Bank of England. Mervyn King – che è stato Governatore dal 2003 al 2013 – l’ha spiegato benissimo, ed in modo equidistante dalla bega nostra tra core e Piigs (M. King, La fine dell’alchimia, Milano 2017, pp. 198-214). All’inizio del suo mandato, che di fatto era cominciato con la lettera – si fa per dire – segreta al Governo italiano del 5 agosto 2011, Draghi si era tenuto molto lontano dall’acquisto di titoli di Stato, ed aveva preferito gestire la situazione garantendo liquidità alle banche. Un comportamento neutro e molto ortodosso. E così ha fatto per un anno e mezzo, fino a quando le pressioni per l’insolvenza greca stavano spaccando il disegno della moneta unica, e Bce e Commissione erano già pronti alla Grexit. Lì, il 26 luglio, a Londra, alla vigilia dell’apertura delle Olimpiadi, Draghi si è alzato ad un incontro di governatori delle Banche centrali, e se ne è uscito a braccio con un annuncio ai mercati molto semplice. Il cui senso era: “piantatela di fare speculazione sui titoli di Stato della zona euro, altrimenti mi metto a comprarli io e vi faccio perdere un sacco di soldi. Perché voi i soldi prima o poi li finite. E io no. Perché voi gli euro, quando li finite, ve li dovete far prestare. Io me ne faccio in cantina quanti ne voglio”.

Lì la situazione è cambiata di colpo e i piani di Grexit sono rientrati.

Che questo sia poi stato un bene per i greci, non lo so. Sta di fatto che, dal punto di vista della conservazione del sistema, Draghi ha saputo gestire benissimo la situazione. E infatti dopo qualche settimana gli investitori esterni all’Eurozona hanno ricominciato ad acquistare attività finanziarie dei Piigs, i rendimenti sono scesi, e la Bce ha potuto ridurre i prestiti alle banche. Non male come risultato dal punto di vista di chi doveva far funzionare una macchina progettata male e doveva inventarsi qualcosa.

E il programma Omt arrivato pochi mesi dopo?

Era lo strumento tecnico per realizzare la promessa del luglio 2012: è stato tanto efficace da non essere mai stato utilizzato. Il punto è che la ripresa degli acquisti dall’esterno ha fatto rialzare il valore dell’euro sul dollaro, e la rivalutazione ha spostato i problemi sulla Francia, che ha perso competitività, ed è andata in stallo, in deficit perenne sull’estero, e per compensare ha cominciato a gonfiare il debito pubblico con deficit sempre più alti. Insomma, risolto un problema da una parte se ne è aperto subito un altro. La Francia della grandeur e della “force de frappe” adesso ha un debito attorno al 100% del Pil e cerca di risolversi il problema facendo politica nel Mediterraneo nei modi che sappiamo.

E in Germania?

In Germania, invece, l’Omt è stato visto come una violazione dei Trattati, alla luce del solito mix tedesco di dogmatismo e opportunismo. E in un certo senso avevano anche ragione. Draghi aveva dovuto assumere un ruolo politico che cozzava contro il dogma dell’indipendenza della Banca centrale (artt. 123, 125 e 126 TFUE), e aveva trasformato per necessità la Bce in una specie di autorità supplente di un governo politico dell’Eurozona, che però poteva agire solo attraverso la leva finanziaria. Da qui l’osservazione per cui ora in Europa la Banca centrale è indipendente dai governi, ma i governi dipendono, in modo diretto o indiretto, dagli interventi della Banca centrale sul mercato secondario. Il programma Omt è stato portato davanti alla Corte costituzionale tedesca, esattamente come il Mes, e stavolta la Corte tedesca ha dovuto rinviare la questione alla Corte di Giustizia. Il risultato è che Draghi nel 2013 è stato convocato davanti alla Corte tedesca. E dopo una serie di passaggi incrociati tra le Corti, l’Omt è stato salvato nel 2016, appena prima della Brexit, facendo finta che fosse conforme ai Trattati.

Fuori dai tecnicismi, che cos’ha significato tutto questo?

Diciamo che Draghi si è trovato alla guida di un’automobile con tre ruote su una strada bagnata dalla peggior tempesta del ’29 ad oggi. E ha dovuto inventarsi una quarta ruota inesistente: e cioè la minaccia di comportarsi davvero come una Banca centrale e chiudere il sistema. Insomma, ha fatto rientrare dalla finestra quel che i Trattati avevano messo fuori dalla porta, creando dal nulla una specie di costituzione economica parallela a quella dei Trattati. E, per aver fatto questo, regolarmente finisce davanti al Tribunale costituzionale tedesco, che prima è stato investito della questione Mes, poi delle Omt del 2012 mai impiegate. E poi ancora, del Quantitive Easing come è stato ancora di recente.

Draghi ha lasciato la Bce nelle mani di Christine Lagarde dopo un mandato in cui è stato duramente criticato dai tedeschi. Eppure il Qe non ha funzionato. Chi ha ragione?

Dipende da quale angolazione ci si pone. La quantità di miliardi immessi nel sistema in questi anni, nel tentativo di far crescere l’inflazione, comprando sul mercato secondario tutto il comprabile, e anche peggio, è stata impressionante. Eppure tutto è stato assorbito dai buchi del sistema finanziario, senza che all’economia reale arrivasse granché. In borsa ne sono girati tanti, ma di soldi in tasca alla gente non ne sono arrivati. E l’obiettivo del 2% di inflazione è stato mancato.

Dopo quello si è passati ai tassi negativi sui depositi delle banche presso la Bce per spingere gli investimenti.

Infatti. E il risultato è stato un ulteriore carico sul sistema bancario, per il quale detenere depositi è diventata fonte di perdite. Risultato ulteriore: adesso i correntisti pagano le banche per tenere i soldi in banca, e il sistema continua a muoversi al rallentatore. Da questo punto di vista la politica di Draghi è stata senz’altro un fallimento. Da un altro punto di vista è stato un clamoroso successo, perché se non forzava l’impianto del 1992, inventandosi prima la quarta ruota invisibile (l’Omt), e poi il ruotino di scorta (il Qe), oggi, probabilmente, sarebbe venuto giù tutto da un pezzo.

È per questo che Draghi stesso, nella sua ultima conferenza e non prima, ha parlato di Mmt (Modern monetary theory)?

È chiaro che, avvicinandosi la fine del suo mandato, Draghi si è sentito più libero di parlare e rivendicare il ruolo che ha giocato nel tenere in equilibrio per otto anni un’automobile con tre ruote. Il 23 settembre al Parlamento Europeo ha cominciato a parlare di Mmt alla Warren Mosler: molto strano per chi avrebbe dovuto essere solo il guardiano dell’ortodossia monetarista e del triangolo magico. L’avesse fatto qualcun altro sarebbe stato lapidato seduta stante. Altri, come Stanley Fischer, che è l’ex governatore della Banca centrale di Israele, e che è uno dei migliori banchieri centrali del mondo, ha preso a parlare di helicopter money alla Friedman. Un altro segnale è che Blackrock, che è semplicemente il più grande fondo di investimento del mondo, e che ha una capitalizzazione di 6mila miliardi di dollari, abbia cominciato in agosto a far girare rapporti sul bisogno di politiche monetarie “non convenzionali”. Segno che tra chi ne capisce c’è consapevolezza che l’impianto, così com’è, non funziona. E che l’approccio monetarista non convince ormai nemmeno chi è stato costretto ad usarlo per anni in un contesto mai sperimentato prima, come Draghi. Tanto che ritiene sensato parlare di Mmt e di finanziamento diretto ai Governi per far ripartire economia reale e spesa pubblica. Insomma, basta leggersi il rapporto di Blackrock, e si capisce molto dell’uscita di Draghi a fine mandato.

Qual è la sua impressione?

L’impressione è che ci si sia resi conto a livello mondiale che l’architettura costruita nel 1992 da un pugno di illuministi per difetto non ha funzionato. E che l’Europa, con le sue beghe interne, e l’attaccamento ad un paradigma di trent’anni fa, è diventata il problema della crescita mondiale, ancor prima che Trump iniziasse a regolare i conti con la Cina. Gli strumenti di intervento sono finiti, e in Europa sanno che se arriva una crisi – che arriverà – l’unica cosa che possono fare è abbassare ulteriormente i tassi, nella logica del “O li spendi o li perdi”. Il che porterebbe alla rivolta delle banche, ancor prima che degli elettori. Altro che gilet gialli.

Il problema?

Il problema è che non vedo chi, in Europa, abbia oggi la forza politica di riavviare il nastro, e ripensare il tutto dopo trent’anni di difesa ad oltranza di un sistema che ha cercato di piegare la realtà alla teoria. C’è una intera classe politica, in tutto il continente, che si è identificata con quella politica economica, e non sa pensare in altri termini. E per difendere si è praticamente dissolta di fronte ai rispettivi elettorati. Non so Conte, ma in Italia Gualtieri è, di quella politica, la retroguardia mandata a difendere la ritirata di Roncisvalle. È evidente che è un coraggioso. E le sue dichiarazioni sulla questione Mes lo dimostrano.

Sembra che oggi quella classe politica, essendo priva di opzioni, miri soltanto a sopravvivere, e attenda solo che accada qualcosa che cambi la situazione.

E questo è un problema enorme per il futuro di tutto il continente. Non è un problema solo economico. Ormai è diventato anche un problema politico e costituzionale. Ora, non so se questi spunti, di cui Draghi si è fatto interprete, possano essere raccolti da una classe dirigente europea che è in via di dissoluzione. Senza beatificare nessuno, possiamo dire che Draghi, prima di lasciare, ha fatto quel che poteva fare. Diciamo che ho soltanto una speranza: e cioè che l’inizio della fine possa trasformarsi nella fine dell’inizio. Non sono ottimista, però so benissimo che in Europa è già successo. E so anche chi l’ha fatto succedere. Che sul Financial Times possa uscire un fondo (“Active fiscal policy must be part of a new normal”, 5 gennaio 2020) che manda in soffitta tutti paradigmi degli ultimi trent’anni, per dire che politiche attive di bilancio devono essere “la nuova normalità”, significa che qualcuno è davvero stufo del cocktail di dogmatismo e opportunismo che ha retto l’Europa, e vuole voltare pagina. E anche in fretta. E di questo si fatto portatore Draghi nel suo ultimo intervento al Parlamento europeo. Diciamo che quell’intervento è stato il suo ultimo messaggio prima di lasciare. E su cui ora iniziare a costruire.

(Marco Tedesco)