Il risultato referendario è stato letto come una vittoria del M5s; tutte le altre forze politiche, però, non si sono considerate sconfitte, perché per il 97% del sistema politico aveva sposato la causa del taglio dei parlamentari.

Questa interpretazione, in realtà, non è convincente, per più di un motivo, e basta allargare l’orizzonte sul risultato delle elezioni regionali per rendersene conto.



Qui, come è noto, si erano fatte delle previsioni che, alla luce dei sondaggi, dovevano vedere una vittoria a mani basse del centrodestra. Invece, l’esito è stato di sostanziale parità: 3 regioni al centrosinistra e 3 regioni al centrodestra. Questo risultato è stato salutato come un successo del Pd e del suo segretario Zingaretti, nonostante, rispetto alla situazione precedente, vada registrata la perdita di una regione importante come le Marche da parte del centrosinistra. Comunque, la situazione che si è determinata dopo le elezioni è vista dalla maggior parte dei commentatori come un rafforzamento dell’attuale compagine di governo e della posizione del presidente del Consiglio Conte.



Se ci si ferma qui, sfuggono i significati più profondi di questa particolare tornata elettorale fatta di referendum ed elezioni regionali. Infatti, il voto del referendum esprime un disappunto nei confronti di tutta la politica nazionale. È per questo che non è un successo del M5s e nemmeno di tutti coloro che si sono appoggiati alla loro proposta di taglio dei parlamentari.

Nel caso del M5s, poi, i risultati delle elezioni regionali sono molto modesti e indicano un declino difficilmente reversibile. Il fatto, poi, che la loro proposta sul taglio dei parlamentari abbia avuto successo, fa il paio con il loro exploit del 2013 e ancora del 2018.



Mi spiego. Nell’elettorato italiano serpeggia da tempo un’insoddisfazione politica che ha investito tutti i partiti politici, e che è il frutto non solo della disattenzione da parte della nostra classe politica rispetto alle indicazioni degli elettori, ma soprattutto dell’incapacità mostrata da questa di dirigere lo Stato e di affrontare in modo risolutivo i problemi del Paese, soprattutto negli anni successivi alla fase acuta della crisi finanziaria (dal 2012 in poi). Molto spesso, infatti, le riforme necessarie non sono state fatte e, al loro posto, si è proceduto verso cambiamenti che di fatto non risolvevano i problemi del lavoro, delle infrastrutture, della sanità, della scuola, ecc., quando addirittura non li aggravavano.

Di qui il successo del M5s, nato sull’onda del Vaffa, e di cui spesso lo stesso Grillo si è vantato dicendo che il merito maggiore del Movimento era quello di avere controllato la protesta popolare. È bastato, però, che il M5s andasse al governo perché il suo appeal venisse meno e, via via, scemasse nelle elezioni europee e in quelle regionali.

Il risultato dei candidati e delle liste del M5s è deludente non solo perché, come è stato detto, hanno sbagliato la campagna elettorale regionale, che di per sé costituisce un problema ulteriore del Movimento, quanto soprattutto per una mancanza ormai di ruolo. Quando si andrà al voto politico, infatti, nonostante l’eventuale presenza del presidente Conte e la ripresa di Di Maio, ci si accorgerà che la loro funzione di serbatoio della protesta si è esaurita e sarà acclarato quanto oggi ormai si dice apertamente, e cioè che il personale politico che hanno schierato nella compagine di governo non è stato sicuramente migliore di quello degli altri partiti, come del resto ha mostrato anche l’esperienza romana della sindaca Raggi.

Il corpo elettorale, per manifestare il suo malcontento, aveva già modificato il suo “alfiere” alle europee del 2019, premiando la Lega di Salvini. Si parlò a suo tempo di un’Italia antieuropea, tanto più che anche il M5s, allora alleato della Lega, era su posizioni simili, sebbene subito dopo il voto europeo si sarebbe riconvertito alle logiche politiche di Bruxelles.

Anche questa spinta a favore della Lega, però, sembra essersi attenuata, soprattutto nel Sud, dove vi è stato un calo significativo della Lega, per cui la strategia pregressa di Salvini appare ormai inadeguata, tanto più che dalla crisi del Covid-19 si uscirà proprio grazie all’Europa e ai diversi fondi che sono stati messi a disposizione dell’Italia e per una quantità veramente ingente.

Può allora il Pd cantare vittoria nonostante la perdita della guida della Regione Marche? Credo che il risultato delle elezioni regionali, ben lungi da quel dicono la maggior parte dei commentatori, dovrebbe preoccupare non poco Zingaretti e questo Pd.

Non è solo la perdita delle Marche a far discutere, ma anche la vittoria di De Luca e di Emiliano e, forse anche dello stesso Giani. Infatti, il Pd ha vinto in Campania e in Puglia con due candidati eterodossi: nel primo caso, peraltro con un apporto significativo degli ex democristiani, ancora forti in quella regione; e nel secondo caso, a dispetto del tentativo di indebolire il candidato presidente da parte di Italia Viva e del M5s, entrambi alleati del Pd a livello nazionale.

Fosse stato per il Pd e per il suo gruppo dirigente, né De Luca né Emiliano sarebbe mai stati ricandidati. Troppo populisti e invisi allo stesso partito (De Luca sin dall’inizio, Emiliano con il trascorrere del tempo). Diciamolo onestamente: sono stati candidati subiti dal Pd nazionale.

Certamente hanno tratto vantaggio dagli errori compiuti dal centrodestra con le loro candidature. Infatti, sia Caldoro sia Fitto erano candidati perdenti, entrambi già battuti alle competizioni regionali, non in grado di oscurare soprattutto De Luca, ma nemmeno Emiliano, e di fatto insistere sui loro nomi non ha fatto bene al centrodestra. Da questo punto di vista il candidato presidente che è andato meglio è quello della Lega in Toscana, il cui 40,4% è più che dignitoso. Si aggiunga, infine, che anche lo stesso neo-presidente della Toscana, Giani, un uomo del territorio, avvocato e antico socialista, è stato più supportato da Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna, che non dal gruppo dirigente nazionale del Pd e che nel passato era stato scartato per diversi incarichi nazionali, cui aspirava, proprio da chi guidava il Pd.

Nella sostanza la lezione della tornata del 20 e 21 settembre sembra essere da un lato che gli italiani continuano a cercare un’alternativa a questa classe politica nazionale, che a più riprese hanno alternativamente premiato e punito; e, dall’altro, che i governatori uscenti sono stati visti come più affidabili. Almeno così spingerebbe a pensare il successo non solo di Zaia e Toti, ma anche quello di De Luca ed Emiliano. La qualcosa potrebbe implicare un giudizio indiretto sul Governo Conte, anche alla luce della gestione della pandemia, e cioè che gli italiani oggi si fidano più delle Regioni che non dello Stato.

In futuro, questo favore per le Regioni potrebbe crescere ulteriormente nelle forme di domande di maggiore autonomia; anche se il successo delle richieste di maggiore autonomia e l’affermazione delle Regioni potrebbero dipendere da come evolveranno i rapporti di queste con lo Stato e, soprattutto, dalle forme della gestione dei fondi europei in arrivo.

Cosa accadrà adesso? La linea del Quirinale è, da questo punto di vista, molto chiara: gli accadimenti sociali e politici fuori del Palazzo sono ininfluenti per questo.

Questo Parlamento, perciò, non sarà sciolto, come pure ritiene una certa manualistica costituzionale, e sarà pure chiamato a riscrivere la legge elettorale e, forse, ad eleggere il nuovo Presidente della Repubblica.

Ciò non è detto che sia sbagliato. Si dà infatti la possibilità a tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, di ripensare non tanto alle loro tattiche, quanto soprattutto alle loro strategie, perché – presto o tardi – si tornerà a votare e gli italiani, quale che sarà la legge elettorale, aspettano ancora che la politica dia possibilmente buona prova di sé. Questa è la democrazia.