Un’operazione spericolata e incostituzionale che affretta la fine della Quinta Repubblica. Macron, con la sua ossessione a contrastare la volontà popolare perché non è quella voluta (da lui), sta incarnando una forma di monarchia “post-repubblicana”. Il presidente francese dovrebbe dimettersi, perché nonostante lui pensi il contrario – o faccia finta di non vederlo –, la settimana scorsa è stato sfiduciato un’altra volta, osserva Mario Esposito, ordinario di diritto costituzionale nell’Università del Salento e docente alla Luiss di Roma. Si vuol far passare l’idea che “spetta ai ‘saggi’ scegliere per il meglio, non alla maggioranza numerica”. Operazione pericolosa: forse non a Bucarest, ma sicuramente a Parigi.
Dopo il suo discorso alla nazione di giovedì 5 dicembre, Macron sta tentando di rompere il Nouveau Front Populaire separando i socialisti, che si sono mostrati disponibili, da Mélenchon.
Può riuscirci, professore?
Se mi consente partirei da un dato diffuso, tra gli altri, dal quotidiano Le Figaro: dopo l’approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del Governo Barnier, sei francesi su dieci ritengono che Macron debba dimettersi. Mi pare che tale opinione colga benissimo la dinamica sottesa a questa gravissima crisi istituzionale.
E secondo lei dovrebbe farlo?
È vero che il Presidente della Repubblica, nel sistema della Costituzione del 1958, non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni, se non nel caso di una violazione dei suoi doveri che sia manifestamente incompatibile con l’esercizio del suo mandato. Ma, al di là di ogni ipotesi sulla possibilità di una nuova iniziativa accusatoria nei suoi confronti, anch’egli è titolare, appunto, di un “mandato” che è espressione di un rapporto fiduciario con il corpo elettorale dal quale è scelto a suffragio universale e diretto.
Questo che cosa comporta?
Per questo motivo, egli è certamente sottoposto a quella forma di responsabilità politica che in Italia chiamiamo “diffusa”, cioè non affidata a procedure formali e tuttavia essenziale in democrazia.
Continui.
È vero che Macron è stato eletto in funzione di contrapposizione a Marine Le Pen e più in generale alle estreme dell’arco politico. Tuttavia, alle ultime votazioni politiche, la maggioranza degli elettori si è espressa proprio in favore dell’estrema sinistra e dell’estrema destra. Macron ne dovrebbe prendere atto, mi pare: e proprio per adempiere al dovere – che la Costituzione gli affida (art. 5) – di assicurare il regolare funzionamento dei pubblici poteri.
Nel discorso alla nazione del 5 dicembre Macron ha accusato il “fronte antirepubblicano” di avere liquidato il Governo Barnier; ha promesso di rimanere e ha detto di lavorare per un “governo di interesse generale”. Da costituzionalista, come commenta il messaggio del presidente?
Sono rimasto francamente sorpreso, ha parlato come se si rivolgesse agli Stati generali dell’Ancien régime.
Addirittura?
È paradossale che Macron definisca “antirepubblicano” l’insieme dei partiti che godono del maggior consenso elettorale. Ma è proprio questo il punto: siamo di fronte a un presidente che disconosce il fondamento stesso della Quinta Repubblica, ossia il suffragio universale. Per capirlo è sufficiente consultare la legge costituzionale del 3 giugno 1958, che ne è alla base. Sono proprio gli esiti del suffragio universale a negargli la legittimazione alla quale aspirerebbe, quella di un grande riformatore. Incline, forse, a condurre la Francia verso un altro regime.
Torniamo al discorso.
Giovedì sera Macron ha dichiarato che lo scioglimento decretato nello scorso mese di giugno non è stato compreso, benché fosse necessario dare nuovamente la parola agli elettori. Bene: gli elettori hanno risposto ancora una volta in senso contrario a Macron. E la sfiducia al Governo Barnier non è che una conseguenza della decisione presidenziale di sciogliere l’Assemblea nazionale.
Come fa a dirlo?
Per comprenderlo basta riepilogare i fatti. Lo scioglimento decretato nel giugno scorso, come ho già avuto modo di illustrare, costituiva una torsione in senso plebiscitario dello scioglimento. Si ricorderà che alle elezioni europee Renaissance, il partito – anzi, più esattamente: il movimento “sincretico”, come esso stesso si definisce –, fondato da Macron fu surclassato dal successo del RN. Un esito che lo stesso presidente aveva letto come una sfiducia verso il suo indirizzo politico e, va aggiunto, verso il suo modo di esercitare il mandato ricevuto dal corpo elettorale. Ma anziché dimettersi, ha scelto di giocare una carta rischiosissima, al limite della legittimità costituzionale: deviare, provvisoriamente, gli effetti della sfiducia sull’Assemblea nazionale, auspicando di poter “correggere” le scelte espresse dagli elettori alle europee.
I risultati delle legislative del 30 giugno, però, non sono andati come aveva previsto.
Esatto. Dopo un primo turno favorevole alla cosiddetta estrema destra, segue un secondo turno che ne ridimensiona il successo mediante un abile gioco di desistenze tra forze politiche eterogenee, privo di ogni convergenza programmatica. E il blocco più consistente, quello del Nouveau Front Populaire, è portatore di un indirizzo politico ben diverso da quello macronista.
E così arriviamo a Barnier.
Non esattamente, non subito. È importante rilevare che di fronte alla volontà liberamente manifestata dagli elettori e alle conseguenti dimissioni del Governo Attal, il presidente “deluso” ha lungamente temporeggiato prima di nominare un nuovo primo ministro: i francesi erano nuovamente caduti in errore, secondo l’ottica di Macron, che, come è stato acutamente osservato da Serge Sur, preferisce e privilegia il versante “verticalista” del potere e i suoi aspetti quasi trascendenti.
Intende dire che il suo atteggiarsi a dominus della politica ha un’indebita dimensione sacrale?
Certo. In fondo Macron, del tutto estraneo per formazione e per carriera al cursus politico, si è affermato in un momento di profonda decadenza del sistema politico francese, proprio quando i francesi si orientavano verso le estreme di Mélenchon e di Le Pen, e lo ha fatto con quella che è stata definita una sorta di Opa sulle istituzioni transalpine. Non ha invece alcuna familiarità con le dinamiche parlamentari e con gli strumenti della democrazia pluralista. Si pensi al suo conflittuale rapporto con i sindacati e poi con gli stessi partiti, ai quali oggi rimprovera di non essere inclini a trovare accordi, dopo aver però esercitato pressioni per ridurre il ruolo del Parlamento ad una mera “cassa di risonanza”, come si direbbe in Italia.
Dove ci porta questa sua ultima considerazione?
È questa, a mio avviso, la prospettiva nella quale va letto il rifiuto di affidare a Lucie Castets, indicata dal NFP, l’incarico di formare un governo, preferendogli Michel Barnier, che ha privato l’Assemblea di ogni effettivo potere di scelta sui contenuti del budget. Non solo. A me pare che negli ultimi mesi Macron mostri insofferenza addirittura per la prima e basilare forma di organizzazione della collettività, il corpo elettorale.
Dove ravvisa questa posizione?
Nel discorso di giovedì sera ha affermato che è necessario dare avvio ad “una nuova epoca”: forse vorrebbe essere un nuovo de Gaulle, che inaugura una Sesta Repubblica. Meravigliarsi poi dell’alleanza tra destra e sinistra nel voto di sfiducia significa voler ignorare uno dei pilastri del regime parlamentare, nonostante la chiara disposizione dell’art. 49, co. 3 della Costituzione francese.
Qualcuno osserva che l’obiettivo dei partiti che hanno sfiduciato il governo è la creazione dei presupposti per la conquista della presidenza della Repubblica.
Sì e non deve sorprendere, perché proprio Macron, con la sua dichiarata insensibilità alla volontà degli elettori – ha detto chiaramente che non intende lasciare l’Eliseo sino alla scadenza naturale del mandato – sta dimostrando che il presidente può fortemente limitare, se non addirittura vanificare, il regime parlamentare.
Come?
Approfittando della disposizione costituzionale che impone un intervallo di almeno 10 mesi tra due scioglimenti dell’Assemblea, Macron ha largo margine per tenere sotto scacco i deputati e, con loro, i francesi.
Prima ha parlato di “Ancien régime”: dove si vede questo approccio?
Nella sua “allocuzione” ai francesi, Macron ha parlato dei partiti e delle loro dispute come se fossero i rappresentanti che sedevano negli Stati generali: il sovrano “parlamenta” con loro, ma a lui resta integro il potere di decisione. Non conta tanto la maggioranza numerica, ma la sanior pars: spetta ai saggi, in definitiva, scegliere per il meglio. In questo, è in buona compagnia, mi pare.
Cioè?
Pensi alla vicenda rumena, dove, a quanto pare, il risultato elettorale è stato annullato per ragioni di “polizia ideologica”. C’è però un elemento che sarebbe molto pericoloso sottovalutare.
Da parte dell’Eliseo? O di Bruxelles?
Di entrambi.
E sarebbe?
I francesi stessi e la storia della loro sovranità.
(Federico Ferraù)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.