Mes rinviato a dopo l’estate? Ormai è praticamente certo. Il ddl di ratifica del trattato di riforma del Meccanismo europeo di stabilità, presentato dal Pd, doveva essere discusso in parlamento il 30 giugno, invece le Camere se ne occuperanno in autunno. “Non è utile all’Italia parlarne adesso”, ha sintetizzato Matteo Salvini, in perfetto accordo con la Meloni. Ma è probabile – e qui scattano i retroscena – che il presidente del Consiglio e il suo vicepremier pensino a sviluppi completamente differenti: quello del leader leghista rimarrebbe un “no”, mentre la premier potrebbe vedere nel rinvio solo il tempo necessario a cambiare narrazione, in attesa di ottenere (è anche la linea del ministro Giorgetti) una contropartita politica e infine ratificare il trattato, trovando un alibi nella differenza che passa tra ratifica e attivazione (dire sì al Mes non è farvi ricorso).
Ma sarebbe un errore, spiega al Sussidiario Agustín José Menendez, docente di diritto pubblico comparato e filosofia politica nell’Università Complutense di Madrid. Anche perché “le probabilità di riuscire a forzare la rinegoziazione del trattato Mes sono maggiori se non si ratifica questa riforma”.
Oggi la ratifica del Mes è un elemento negoziale dell’Italia nella trattativa sulla riforma del Patto di stabilità. È vero che la mancata ratifica indebolisce la posizione contrattuale del Governo italiano, togliendogli “credibilità”?
Ammesso e non concesso che sia pertinente usare la ratifica del Mes come merce di scambio, l’ordine dei fattori altera – e tanto – il prodotto. Prima di parlare di ratifica del Mes, ci vorrebbero garanzie sull’inclusione della cosiddetta “golden rule” del nuovo Patto di stabilità. Questo per la semplice ragione che i due processi sono in stadi molto diversi.
È vero che non ratificando il Mes l’Italia blocca la possibilità di attivazione del Meccanismo in caso di “crisi”?
Questo è un modo di esprimersi abituale ma molto impreciso. Il Mes non soltanto è una realtà istituzionale da più da dieci anni, ma è già intervenuto con programmi di assistenza finanziaria. E durante la crisi del coronavirus ha acquisito una reputazione dubbia, associata ai disastri dell’austerità, quindi gli Stati che possono lo evitano.
E con la riforma?
La riforma dà al Mes nuovi scopi che senza la ratifica non ci sarebbero. In caso di crisi del debito, certi tipi di assistenza finanziaria preventiva non sarebbero disponibili e il Mes non potrebbe funzionare come backstop del Fondo di risoluzione unico. In quest’ultimo caso, neppure con i soldi del Mes si sarebbe in grado di far fronte a una crisi finanziaria sistemica, perché sarebbero insufficienti. Per ciò che riguarda l’assistenza finanziaria preventiva, ci sono rilevanti svantaggi che vanno considerati.
Proviamo di cambiare il punto di osservazione. Che cosa otterrebbe il Fondo – e dunque chi lo presiede – con la ratifica dell’Italia?
Aggiungerebbe un’altra leva di condizionalità. Si metterebbe in moto un ingranaggio molto ambivalente. Il Mes riformato dovrebbe procedere sistematicamente a valutare la sostenibilità del debito degli Stati – determinando, nei termini del nuovo articolo 14, se gli Stati hanno “fondamentali economici solidi”, capaci di “subire gli effetti negativi di shock al di fuori del loro controllo” –, e procedendo in questo modo prima o poi diventerebbe di fatto una sorta di rating agency pubblica europea. In teoria potrebbe essere un bene, permettendo agli Stati di “emanciparsi” dalle agenzie di rating americane. Ma non è affatto detto che sia così, se si applicano i criteri previsti nell’Allegato III, fondati su una visione riduttiva del ruolo dello Stato e della finanza pubblica rispetto a quanto avviene in uno Stato democratico e sociale di diritto.
Chi si gioverebbe di più della nostra ratifica? In altri termini, cui prodest?
Un’eventuale ratifica del nuovo Mes non soltanto andrebbe nella direzione del modello di eurozona auspicato in questi ultimi anni da Schäuble e Lindner, ma potrebbe anche favorire gli interessi tedeschi in modo molto concreto. A pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina, e forse andare alle vicende di Commerzbank è inevitabile… Detto questo, è un po’ riduttivo considerare soltanto i giochi distributivi fra Stati.
Ci spieghi meglio.
È una dimensione del problema, ma forse non la principale. La disciplina associata al Mes incide – eccome – nella distribuzione dei redditi fra ceti e classi sociali. Le conseguenze macroeconomiche di un ulteriore controllo delle politiche fiscali andrebbero nella direzione di un ulteriore favoreggiamento dei “rentisti”. In parole povere: il Mes non è fondato sul lavoro. Ma il nuovo Mes lo sarebbe ancora meno.
L’Italia ha un debito pubblico superiore al 150% del Pil. Come cambierebbe la nostra posizione con il completamento della riforma?
Il nuovo Mes probabilmente giudicherebbe l’Italia un Paese con fondamenti economici solidi, ma non troppo: vale dire un Paese di serie B. Certo, il debito pubblico italiano è molto alto, però va ricordato che le sue cause storiche sono molto più complesse di quelle abitualmente considerate nei dibattiti accademici e politici europei. In ogni caso, ci potrebbero essere ricadute negative per la capacità negoziale dell’Italia, specialmente in contesti di crisi.
Insomma, il motivo della pressione sul Governo non è solo il completamento dell’unione bancaria. Ci sono ragioni squisitamente politiche.
Quando si parla di finanza pubblica non ci sono mai argomenti puramente tecnici. Va detto che ad identiche situazioni o motivazioni politiche ci possono essere soluzioni tecnicamente migliori o peggiori.
È vero che il completamento della riforma del Mes sarebbe un passo ulteriore in direzione della “integrazione” europea?
L’integrazione non è fine a se stessa, e quindi dell’integrazione ci sono diverse possibili interpretazioni. Proprio per questo, credere che tutte le misure che fanno aumentare le competenze degli istituzioni sovranazionali nel limitare il potere degli Stati membri siano un passo avanti nell’integrazione europea, è un’assurdità. Un conto è creare un governo economico federale e democratico, altra cosa è dare più poteri a un’agenzia che sarà difficile da controllare tanto da parte dei parlamenti nazionali quanto del parlamento europeo. È qualcosa che non giova a un’idea seria di federalismo europeo.
Il nuovo Mes in che rapporto sarebbe con il nuovo Patto di stabilità, se passasse l’ipotesi di riforma auspicata dalla Germania?
Se passa la linea dura di Christian Lindner, al vincolo esterno attuato dalla Commissione, che dopo la riforma del Patto di stabilità avrebbe la facoltà di fissare traiettorie tecniche cosiddette ad hoc per ciascun Paese, si aggiungerebbe il vincolo esterno attuato dal Mes. In queste condizioni, e per dirla con Pietro Nenni, prima o poi “la stanza dei bottoni” del Mes diventerebbe decisiva.
Nel parere tecnico formulato dal Mef si parla di rischio Mes riferendosi alla valutazione delle agenzie di rating (Mood’y), di “riscontri avuti da analisti e operatori di mercato”, di “percezione” della riforma “come di un segnale di rafforzamento della coesione europea”, mentre “gli effetti (…) derivanti dalla eventuale attivazione del supporto finanziario” del Mes vengono fatti dipendere da una serie di variabili difficili da prevedere ex ante. Di cosa stiamo parlando?
È un giudizio che sembra esprimere quella che Padoa-Schioppa chiamerebbe la “veduta corta”. Non è impossibile che nel brevissimo tempo la ratifica del Mes riformato sia considerata dai cosiddetti “mercati” come un segnale di “mutualizzazione del debito”, a vantaggio dei Paesi con alti livelli di debito pubblico. Stiamo parlando però di una riduzione minima dei tassi di interesse. I cosiddetti mercati potrebbero reagire molto diversamente in uno scenario di crisi. Quello che il parere tecnico non considera sono i rischi a medio e lungo termine. Che potrebbero essere considerevoli.
Siamo in un mondo completamente diverso da quello di due anni fa. Cosa sono in questo “nuovo mondo” il Mes e la stessa Bce, che si concepisce come strumento di sostegno finanziario ad un Paese – l’Ucraina – in guerra contro la Russia?
Non sono sicuro che il nostro mondo sia così nuovo. La vera banca centrale globale rimane la Fed, purtroppo. In più, il capitale finanziario europeo si è “dollarizzato” ancora di più in questi ultimi anni. La crisi di Credit Suisse è l’ultimo capitolo di un lungo processo nel quale i grandi capitali europei abbandonano le banche europee e operano con le banche angloamericane. D’altra parte l’avvertimento della Bce alla Commissione europea e ad alcuni leaders europei contro l’espropriazione dei fondi della banca centrale russa, perché tale opzione potrebbe avere importanti ricadute sull’appetito degli investitori per il debito europeo, pubblico e privato, mostra fino che punto, nel sistema monetario e finanziario, l’Europa si sia messa nelle mani di “holders” di euro-assets.
Che cosa dovrebbe fare secondo lei il Governo italiano?
Non spetta a me dare consigli al Governo italiano. Mi sembra però che dare battaglia per ottenere, quanto meno, che la golden rule sia parte del nuovo Patto di stabilità sia non solo nell’interesse di Stati come Italia, Francia e Spagna, ma anche dell’Europa. Senza investimenti non c’e futuro. È da decenni che abbiamo trascurato gli investimenti, e non soltanto quelli pubblici. Basta prendere un treno in Germania per verificare la verità di questa affermazione.
Ma l’Italia ha la forza per sostenere questa battaglia?
Nessun governo può farcela da solo. Nel breve termine occorre creare alleanze con altri Paesi europei, nel medio termine cambiare il discorso pubblico sulla finanza pubblica. Altrimenti, finiremo per sparpagliare i soldi pubblici senza cambiare il corso delle nostre economie.
Questo per quanto riguarda il Patto. E sul Mes?
Anche nel caso in cui la riforma non venisse approvata, è ovvio che il Mes non scomparirebbe. Ma vanno aggiunte tre premesse ad ogni possibile trattativa.
Ci dica.
La prima è che il Mes, senza la riforma, è destinato a diventare un “carrozzone” senza scopo – come di fatto è un po’ già adesso. Questo, di per sé, rinforzerebbe la posizione di coloro che vogliono una riforma molto diversa da quella attualmente sul tavolo.
Seconda premessa?
Per il motivo detto, le probabilità di riuscire a forzare la rinegoziazione del trattato Mes sono maggiori se non si ratifica questa riforma piuttosto che dicendo di sì.
E la terza?
La terza è che ci vorrebbe almeno una rinegoziazione dell’Allegato III, che costituisce un elemento fondamentale della riforma, o quantomeno una negoziazione ex ante delle modalità concrete della sua applicazione come parte della riforma del Patto di stabilità. Basti pensare al concetto, essenzialmente indeterminato, di disavanzo strutturale.
(Federico Ferraù)
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