Raggiunta un’intesa sugli ostaggi: lo ha fatto sapere il quotidiano israeliano Haaretz nella notte. Israele e Hamas avrebbero trovato un accordo su molti punti, comprendenti il cessate il fuoco, la liberazione di tutti gli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas e la durata dell’accordo, pari a 35 giorni. In cambio, Israele dovrebbe rilasciare i prigionieri palestinesi e fornire aiuti agli abitanti della Striscia di Gaza. Il problema principale sarebbe il cessate il fuoco, che per Hamas dovrebbe essere totale. Non emergono per ora altri dettagli sulle trattative.
La notizia è arrivata alla fine di una giornata convulsa sotto il profilo politico-diplomatico, nella quale Tel Aviv ha respinto il ruolo di mediazione del Qatar. Sulle trattative, d’altra parte, aleggiava già lo spettro delle parole del primo ministro israeliano Bibi Netanyahu, che in un incontro con le famiglie degli ostaggi rapiti da Hamas aveva giudicato “problematico” il Qatar come mediatore, criticando gli USA perché hanno rinnovato per altri dieci anni l’accordo per mantenere una loro base militare sul territorio controllato da Doha. Non un episodio isolato, visto che a quelle dichiarazioni si sono aggiunte quelle del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e di altre autorità israeliane, a partire dall’ambasciatore all’ONU.
Una presa di posizione, quella di Israele, osserva Camille Eid, giornalista libanese residente in Italia, collaboratore di Avvenire, che sembra animata dalla volontà di troncare i ponti con i Paesi in grado di mediare tra le parti, per lo scambio di ostaggi ma anche per una soluzione politica della questione palestinese. E che fa nascere qualche dubbio anche sull’effettiva intenzione di Israele di concedere una tregua. L’unica pressione che può cambiare l’agenda del governo Netanyahu sembra essere quella interna, dovuta principalmente alla protesta dei familiari degli ostaggi che chiedono di salvare i loro cari.
In attesa di conoscere gli sviluppi dell’accordo annunciato da Haaretz, le parole di Netanyahu contro il Qatar sono pesanti: sembrano il de profundis di qualsiasi mediazione.
Gli israeliani stanno tagliando i ponti con quei pochi Stati che sono disposti a fare da mediatori. Un aspetto che non trova una spiegazione ufficiale. La campagna contro il Qatar non si limita alle parole di Netanyahu. Si sono aggiunte quelle dell’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Gilad Erdan (“Voi sapete chi è il Qatar”) e del ministro dell’Agricoltura Avi Dichter, che è andato giù pesante. Il problema a questo punto è trovare un altro mediatore: con la Giordania e l’Egitto c’è tensione, con gli USA, che chiaramente non possono fare da mediatori, sappiamo come sono i rapporti; Israele dica chi può svolgere questo ruolo.
Se disconoscono il principale mediatore dell’accordo per liberare gli ostaggi, c’è da pensare che anche la proposta israeliana di due mesi di tregua sia solo comunicazione, ma che in realtà non ci sia nessuna intenzione di procedere in quel senso?
È un’ipotesi. Smotrich ha accusato il Qatar di essere in parte responsabile dell’attacco del 7 ottobre, ha tacciato di ipocrisia il comportamento dell’Occidente perché i suoi rapporti con Doha sono basati sulla corruzione, ma le sue posizioni sono note. Se anche mettiamo da parte lui, rimangono le dichiarazioni del primo ministro: perché si lamenta del rinnovo dell’intesa USA-Qatar per mantenere una base americana nel Golfo? Che cosa c’entra lui con questo? Vuole ficcare il naso anche nei rapporti bilaterali tra americani e qatarioti, mentre per prima cosa dovrebbe pensare agli ostaggi.
Come va interpretata, invece, la risposta del Qatar?
Majed Al Ansari, portavoce del Qatar, ha risposto che se le parole di Netanyahu fossero vere significherebbe, appunto, che invece di occuparsi degli ostaggi ci si preoccupa di altro “per ragioni che sembrano servire alla sua carriera politica”. Una risposta forte ma anche per certi versi contenuta, che non è stata affidata a un ministro o a qualche esponente più autorevole.
Ma quali sono stati in precedenza i rapporti del Qatar con Netanyahu?
Un mese fa si è parlato di un cyber attack finanziato dagli Emirati Arabi in seguito al quale sono emerse delle lettere scambiate fra il Qatar e Netanyahu come capo del Likud, per finanziare le sue campagne elettorali. Avrebbe ricevuto soldi per questo scopo nel 2012 e nel 2018 per un totale di 65 milioni di dollari, la prima tranche da 15 e la seconda da 50.
Un’iniziativa che sarebbe perfettamente in linea con quello che ha fatto il Qatar anche in altre occasioni, basta pensare allo scandalo che riguarda il parlamento europeo.
Esatto. Però in questo caso Netanyahu non può lamentarsi del Qatar, visto che avrebbe ricevuto anche lui aiuti. Non è per difendere il Qatar, ma sono questi i mezzi che i piccoli Paesi usano per acquisire peso e poter contare nei momenti di crisi come quello attuale.
Di fatto in questo momento Israele ha rapporti tesi con i Paesi vicini. Quali sono le questioni aperte?
L’Egitto partecipa alla mediazione tra Israele e Hamas, ma i suoi rapporti con Tel Aviv non sono buoni. C’è la disputa sulla Philadelphi Route, un corridoio al confine tra i due Paesi che gli israeliani vorrebbero controllare, e nei giorni scorsi il presidente egiziano al Sisi ha rifiutato una telefonata di Netanyahu. Con la Giordania è successa la stessa cosa: Israele è arrabbiato per le critiche subite dal ministro degli Esteri giordano e vorrebbe ridurre la quota di acqua che passa ad Amman da 100 milioni di metri cubi a 50. Hanno un accordo per la ripartizione dell’acqua del Giordano. Sarebbe una decisione molto grave per la Giordania: è un Paese desertico, se non riceve l’acqua muore. Se viene messo all’angolo anche il Qatar, non resta più nessuno con cui dialogare.
È vero che il Qatar ha finanziato Hamas e ha cercato di corrompere gli occidentali, comunque, pragmaticamente, il suo lavoro di mediatore lo stava facendo. Riuscirà a mantenere questo ruolo?
Forse anche in virtù di questi rapporti è riuscito comunque a parlare con tutti. Gli americani sono dentro la mediazione, il consigliere di Biden Brett McGurk è stato in Qatar, ha incontrato il capo dell’intelligence egiziana, si sta muovendo in Giordania e negli Emirati, ma non può trattare con Hamas, può farlo con quei Paesi che possono influire sull’organizzazione palestinese. Nelle camere segrete, insomma, si stava preparando qualcosa. Ora lo stop ai negoziati è una battuta d’arresto, anche se può essere un modo per fare pressione.
Alla fine l’unico vero fronte di pressione che funziona con Netanyahu è quello interno?
Sì, principalmente quello delle famiglie degli ostaggi, che chiedono a gran voce di trovare una soluzione per liberarli. Se non volessero una mediazione dovrebbero intervenire direttamente con l’esercito per farli tornare a casa. La realtà, tuttavia, è che non sanno neanche dove stanno. Gli israeliani hanno detto di avere localizzato Yaya Sinwar (uno dei capi di Hamas, nda) insieme a degli ostaggi a Khan Yunis, poi però hanno riferito che si sarebbe spostato tra Rafah e Deir el-Balah. Vuol dire che non sanno veramente dov’è.
Qual è la morale, alla fine, di questa presa di distanza di Netanyahu dal Qatar?
Al di là delle proposte di facciata, Netanyahu sembra non volere nessun tipo di mediazione, intende semplicemente andare avanti con i suoi piani e basta.
(Paolo Rossetti)
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