Al vertice informale dei ministri dell’Economia questa settimana in Svezia Giancarlo Giorgetti si è trovato al centro di un pressing crescente perché l’Italia ratifichi il prima possibile la riforma del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, un maxi fondo pronto a intervenire (non gratis, ma sotto strette condizionalità) in aiuto di Stati che si dovessero trovare in difficoltà finanziarie e sotto attacco della speculazione internazionale.
Il titolare di via XX Settembre ha preso tempo e opposto un muro di gomma, sostenendo che il Parlamento si è già espresso in modo contrario, giudicandolo obsoleto e rischioso, anche per le pesanti – appunto – condizionalità imposte a chi dovesse essere costretto a farne richiesta, oltre che per l’effetto-stigma e la previa valutazione di sostenibilità del debito pubblico; e che occorre una riforma migliorativa dello strumento, oppure, meglio ancora, un suo superamento, e un impulso decisivo all’Unione bancaria.
L’impressione di alcuni osservatori è che la ratifica sia solo questione di tempo, non “se”, ma “quando”: l’intenzione da parte italiana sarebbe quella di strappare più concessioni possibili proprio in cambio della ratifica della riforma del Mes. Non pare questo l’avviso del titolare del Mef; in ogni caso, solo il proseguimento della trattativa, fatta di numerosi e complicati dossier, potrà dire quali saranno le sorti del Meccanismo e della ratifica.
L’altra partita urgente è quella del Pnrr: La terza tranche da 19 miliardi, riferita al secondo semestre del 2022, viene data ormai per certa, ma appare ormai evidente che ogni step successivo si scontrerà con la cronica difficoltà italiana di appaltare i progetti rispettando le modalità richieste dall’Europa, in primo luogo sulla tempistica. Sarà tutto giudicato con maggior rigore. Ecco perché la Meloni spinge sin da prima del suo insediamento per ridiscutere la fetta italiana del piano Next Generation Eu, al fine di concentrare le risorse sui progetti che realisticamente possano essere conclusi entro il 2026, data limite imposta da Bruxelles. O si ritocca la lista dei progetti, oppure si allungano i tempi. Trattativa possibile, ma per niente facile: l’Unione si attende un cambio di passo e avrebbe voluto le proposte italiane entro il 30 aprile, Palazzo Chigi ha preso tempo, punta a un piano ampio, ma entro agosto.
Il rischio è dover rinunciare a parte dei fondi assegnati al nostro Paese. Qualcuno dalle parti della Lega lo ha già ipotizzato, ma sarebbe un’enorme sconfitta d’immagine per il governo di centrodestra. Il ministro Fitto è al lavoro per trovare una via d’uscita.
Accanto a Mes e Pnrr c’è un terzo grande dossier economico: all’Ecofin di giugno entrerà nel vivo la discussione della riforma del Patto di stabilità, sospeso in pandemia. C’è tempo solo sino a fine anno per trovare un’intesa, altrimenti torneranno in vigore le vecchie regole di austerità, che non sono mai piaciute a nessun governo italiano, di destra, di sinistra, o tecnico che fosse.
La Germania, spalleggiata da Austria e Finlandia (ma non dall’Olanda, storico capofila dei “frugali”) insiste nel chiedere parametri quantitativi comuni, l’Italia è contraria, e chiede di considerare le spese di investimento in modo diverso. Pnrr, ma anche gli aiuti all’Ucraina (per non dover scegliere fra sostegno a Kiev e rottura delle regole del Patto). Alla Germania viene contestato anche l’ennesimo tentativo di proteggere il proprio sistema bancario. Cruciale sarà saper costruire alleanze, almeno una convergenza di convenienza con la Francia, dove Macron è in difficoltà, mentre il debito pubblico è schizzato in alto per via della pandemia e della guerra in Ucraina.
Sullo sfondo un altro tavolo negoziale fondamentale per la Meloni, che poco o nulla ha a che fare, almeno in apparenza, con le regole dell’economia: la gestione dei flussi migratori. Il lavoro, di concerto con il Quirinale, per fare del flusso da sud un problema europeo procede a rilento. La missione congiunta a Tunisi dei ministri dell’interno di Italia, Francia e Germania prevista per la settimana scorsa è saltata perché dal governo tunisino non sono giunte le garanzie in tema di diritti umani. Niente fondi, né europei, né del Fmi, almeno per ora.
La partita europea ha tanti tavoli, quanti rischi. Ma il rischio più grande è quello di ritrovarsi isolati. Vorrebbe dire subire le scelte degli altri, anche quelle più sgradite.
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