La direzione dl Pd è stata piena di parole, ma più di quelle sono le facce ad essere utili a comprendere cosa accadrà. Non solo lo scuro nei volti dell’ormai ex gruppo dirigente, ma soprattutto lo smarrimento di quelli che dovrebbero prenderne il posto. Nessun entusiasmo ha balenato negli occhi di chi è intervenuto, nessuna faccia realmente nuova è riuscita a distrarre Letta, e la segreteria seduta al tavolo di presidenza, dalla lettura dei commenti sui cellulari.
Manca ancora, è evidente, una linea precisa che dica se Bonaccini potrà intraprendere la strada del riformismo emiliano da declinare in sede nazionale o se sarà un sindaco (Sala o Nardella) a proporre la sfida del sindaco di Italia. Due prospettive che portano diritto sulla linea dell’ex segretario tanto odiato: Renzi. L’alternativa “di sinistra” e di “dialogo costruttivo” con i 5 Stelle è già morta. Conte ha dichiarato che andrà da solo alle regionali dei prossimi mesi, aprendo apertamente la sfida al Pd sul piano elettorale e minacciando direttamente i consiglieri regionali uscenti del partito, e gli aspiranti governatori, precisando che i 5 Stelle pescheranno nello stesso mare dei democratici. Un vero e proprio attentato all’ossatura del Partito democratico. Nessun compromesso ma pura competizione. Con una mossa spavalda Conte sente la debolezza (forse anche la pochezza) della posizione del Pd e mira a sotterrarlo più di quanto stia tentando di farlo Renzi con Calenda.
Perciò la saggezza di Zanda, l’analisi di Orlando e le parole di altri dirigenti sono state cariche di paura. Il timore di avere poco da dire di diverso ed originale da quanto ripetuto negli ultimi anni è palpabile. Inseguire Conte sul populismo di sinistra criticando il neoliberismo o riprendere il cammino riformista renziano sono strade connotate da una distruttiva forza centripeta che scaglierà interi pezzi fuori dal Partito. Sono strade inconciliabili nella pratica e che se declinate in maniera coerente portano a scegliere gli originali competitori al Pd. Se vi fosse un po’ di saggezza si potrebbe riprendere la riflessione veltroniana o prodiana (che tentavano di declinare diversamente ma modernamente il rapporto tra i vari pezzi della società italiana ed a portarla nel futuro) riprendendone l’ambizione culturale e sociale e fare un partito vero che sogna, immagina, costruisce e propone.
Ma il Pd oggi è un consesso pigro e spaventato, senza il coraggio rivoluzionario degli ex comunisti e la forza morale dei cattolici di sinistra. Un gruppo di persone che hanno scalato dal basso (di segreterie particolari o potentati locali) posizioni e per poi aggrapparsi alla zattera di ulivo che ha tenuto a galla troppe carriere. Se avesse un vero gruppo dirigente avrebbero sotterrato l’ascia, avrebbero avviato una riflessione culturale profonda e si sarebbero aperti loro a Renzi e 5 Stelle, proponendosi come vera sintesi e guida dei due e non come terzo incomodo tra due forti.
La vera sconfitta non è nei voti, che sono meno del 2018 ma non molti di meno, ma nell’aver perso, forse definitivamente, ogni capacità di essere il luogo della politica, della elaborazione e quindi della partecipazione. Perciò nelle prossime settimane o si proverà a trovare una sintesi che arrivi a rileggere questa crisi mettendo le diverse anime a tacere, prendendo la leadership culturale (e quindi politica) del partito, trovando solo a quel punto un vero nome di sintesi, o ci sarà la conta tra fazioni e gli esclusi inizieranno a guardare ai lati, trovando ad accoglierli il sorriso a mezza bocca Conte o l’abbraccio di Calenda. Ci vorrebbero coraggio, cuore e cervello per ridiventare il partito delle primarie, per rileggere la storia recente dando anche un visone del futuro. Oggi invece c’erano paura, confusione e rassegnazione. Non un buon auspicio.
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