Difficile dire se, quando disse no all’invito ad “Atreju”, Elly Schlein avesse già in mente di convocare un’assise alternativa. Di sicuro è stata convocata molto dopo, ma la mossa è diventata quasi obbligata per non lasciare tutte le luci della ribalta pre-natalizie alla Meloni. E se n’è vista l’utilità con la polemica intorno agli spazi concessi da una Rai costretta a un minimo di par condicio fra le due kermesse concorrenti, non senza velenose code polemiche.



Che si sia trattato o no di una vera e propria contromanifestazione, di sicuro l’assemblea nazionale del Pd ha segnato un punto importante nella vita interna dei democratici. Alla chiamata alle armi della segretaria hanno risposto alcuni dei padri nobili del partito, da Romano Prodi a Paolo Gentiloni, sino a Enrico Letta. Fra i tre il nome più amato rimane quello del professore bolognese, considerato il fondatore del Pd. Assume quindi grande rilievo politico l’investitura di Prodi a Schlein a possibile federatore (o federatrice) di un centrosinistra che senza unità non ha alcuna possibilità di competere con un centrodestra che appare saldissimo, tanto politicamente, quanto nei consensi elettorali.



“Il Pd ha perso sei milioni di voti che si sono rifugiati nel populismo”, è stata la diagnosi impietosa del professore di Bologna. Per Prodi equivale a dire Meloni e Salvini, certo, con le loro propaggini europee, Orbán, Abascal, Le Pen e compagnia cantante. Ma l’emorragia che più ha ferito il corpaccione democratico, cresciuto sino al 40% in epoca renziana, è stata quella verso il miraggio pentastellato. Il Governo rimane l’avversario numero uno, certo. Ma tutto da costruire è una coalizione potenzialmente vincente.

Su questo è illuminante un’altra frase pronunciata da Prodi: “il problema è fasi federare”. Il problema, quindi, è Giuseppe Conte, che ha lanciato da tempo la sua sfida al Pd per chi debba essere a guidare l’opposizione alla riscossa. Lui ha ripetuto più volte che un federatore non serve, bocciando sul nascere qualunque ipotesi di personalità differenti dai leader, ad esempio quella di Paolo Gentiloni: la corsa è fra lui e Schlein, e decisivi saranno i risultati delle elezioni europee del 9 giugno, dove si vota con il proporzionale puro, non servono coalizioni, anzi ciascuno corre per sé e il concorrente più temibile è il partito più vicino e più simile, non quello dalla parte opposta della barricata politica.



L’incoronazione di Romano Prodi a Elly Schlein rappresenta dunque dentro il Pd il segnale della necessità di archiviare ogni polemica sull’adeguatezza della leadership della segretaria, compresa quella sul peso scarso o nullo dei cattolici democratici, di cui il due volte premier rimane il leader più prestigioso. È un perentorio “serrate le fila” in vista di cinque mesi di campagna elettorale durissima per evitare il sorpasso da parte dell’M5s, che rimane staccato nei sondaggi, ma di una percentuale troppo esigua (3-4 punti) per permettere di dormire sonni tranquilli.

Al Nazareno l’incubo del sorpasso è concreto, anche se sono in pochi ad ammetterlo. Conte viene giudicato un concorrente insidioso perché ha dimostrato di sapersi muovere con spregiudicatezza a tutto campo, abile nel modellare le posizioni del proprio partito, il meno ideologico di tutti, sulla base delle circostanze e delle convenienze. In più i pentastellati rivendicano la primogenitura di due misure invise alla destra, ma che continuano a smuovere rilevanti consensi, il Reddito di cittadinanza e il superbonus edilizio. Tutte carte che il Pd per sua natura deve giocare con una prudenza molto maggiore.

L’imperativo per i democratici è quindi di non farsi scavalcare a sinistra dai 5 Stelle. Tutti uniti, fino alle europee, autentica battaglia per la sopravvivenza politica. I conti si faranno solo dopo, sulla base del risultato del 9 giugno. Saranno certo conti interni, perché un sorpasso segnerebbe la fine prematura della segreteria Schlein, ma avverranno anche nell’ambito del centrosinistra, perché definiranno chi potrà guidare una coalizione anti-Meloni tutta da costruire. Da qui a giugno, il centrosinistra può attendere.

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