Renzi le ha suonate di brutto al suo ex partito senza risparmiare la sua ex collega di segreteria Serracchiani, le cui ennesime doglianze sul ruolo delle donne, ridotte dal centrodestra secondo lei a casalinghe degli anni ‘50, avrebbero dovuto colpire la Meloni, che è in realtà più che mai la prova vivente che un tetto di cristallo è stato rotto. E non dalla sinistra.
Una donna che comanda e ci tiene anche a farlo sapere è l’immagine che tutti hanno sotto gli occhi, Renzi compreso, e che solo a chi vuole ancora illudersi che ci sia l’amato nemico Berlusca a Pazzo Chigi fa finta di non vedere.
Sono tempi nuovi, anche con attori simili, tempi di conversione collettiva e individuale, di populisti sovranisti di un tempo che oggi predicano Europa e prudenza. Tempi nuovi e bui per parlamentari e dirigenti del Pd, che sentono di avere un vuoto pneumatico di programmi e idee al loro interno con la maledizione che appena pensano qualcosa sembrano o contiani o renziani.
Per essere del Pd in questa fase, in pratica, è meglio non pensare nulla. Appena si spinge sui temi della povertà e della redistribuzione della ricchezza, mezzo partito urla al tradimento in favore della fusione con i grillini. Se qualcuno spinge su riformismo e innovazione, diventa per incanto una quinta colonna di Calenda o di Renzi. Per sistemare questo incubo tutto tace e si riciclano vecchie litanie, si cerca di dire l’ovvio, che ben ha funzionato negli scorsi anni.
Ma stavolta l’ovvio non vale più. Il mondo del bunga bunga è lontano, Di Maio è stato un alleato di coalizione, a destra spadroneggia una biondina quarantenne. I nemici hanno la faccia dei migliori amici di un tempo. Con il mondo che si fa più complesso e gli spazi più nitidi come posizione politica già presi da altri.
Manca nel Pd, in sostanza, un pensiero elaborato, una clausura di riflessione e un purificante scontro di idee per far emergere l’essenza stessa del partito. Cosa che in realtà nessuno vuole davvero, temendo di spaccare tutto e perdere l’occasione di tornare al governo alla prima crisi.
Così scende in campo la politica pratica. Quella degli amministratori locali, di estrazione tosco-emiliana, gente che governa da generazioni e che di sinistra ha al massimo il nonno. Perciò in questo vuoto di idee una candidatura come quella del sindaco di Firenze, Nardella, appare addirittura credibile, come quella di Bonaccini. Entrambi sono esponenti di alcune delle poche aree in cui il sistema del Pd non è crollato sotto le grinfie di Renzi o dei grillini e hanno una solida preparazione amministrativa. Sarebbero perfetti a tenere caldo il posto e giocare di rimessa fino alla tanto agognata crisi. In pratica, due accettabili contenitori criogenici in cui incapsulare il corpo morente del partito fino a che non accada il miracolo del “Governo di tutti” a resuscitarlo.
Sennonché, come autorevolmente analizzato, il problema non è la leadership. Di quelle il Pd ne ha bruciate talmente tante che ormai ogni consigliere comunale di provincia si sente in grado di fare il segretario. Il problema è di come il Pd vuol fare politica. Se intende tornare alla radice della crisi, ovvero ante Ulivo, e riproporre un sistema di partito strutturato (con ovvi aggiustamenti) o se preferisce rimanere un aggregato di potentati personali in cui ciascuno bada al suo.
A scommettere molti puntano sulla seconda opzione con la foglia di fico di una segreteria ponte (tosco-emiliana) che sopisca le paure e superi la piena come un giunco, pronti a rialzarsi appena passata la piena. Strategia prudente, ma che deve scontare l’aggressione degli esterni, la frustrazione dei tanti capicorrente senza potere e il silenzio che sarà lungo.
Le parole d’ordine imparate a memoria negli ultimi anni non valgono più per la Serracchiani e per tutti gli esperti del come era. Oggi è un’altra fase, quella del deserto dell’opposizione. In cui si dovrebbe meditare e tacere. O l’ameno tacere finché non si è meditato.
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