In una situazione politica di così grande contrapposizione e concitazione, diventa problematico formulare un giudizio sulla nomina di Elly Schlein alla segreteria del Partito democratico. Il colpo a sorpresa della sua nomina attraverso le primarie dei simpatizzanti o aspiranti votanti, circa o poco più di un milione, che ha letteralmente cancellato il voto degli iscritti, induce a tante ipotesi che si accavallano, sia in senso positivo che in senso negativo.
Non c’è alcun dubbio che il Pd, il sedicente rappresentante della “comunità democratica” italiana e l’erede della sinistra più contraddittoria del mondo democratico uscito dal dopoguerra, aveva bisogno di una sorta di “rivoluzione” interna e di una nuova visione politica. Il problema è vedere se, alla lunga, si è imboccata la strada giusta. E questo non è affatto semplice da immaginare e da ipotizzare.
Mettiamo intanto i puntini sulle “i”. La nomina della giovane Elly Schlein, attraverso primarie che autorizzano il voto a chi versa due euro e si ritiene simpatizzante, è una “strana rivoluzione” per un partito che intende ancora richiamarsi, a quanto dice, ai principi, all’identità della sinistra classica.
Dal “Club dei Giacobini”, passando per il socialismo utopistico, per quello anarchico-socialista, fino a quello marxista, prima riformista e poi leninista, la premessa era sempre un congresso dove si ragionava su tesi diverse e si votava all’interno degli iscritti sulla linea più convincente e maggioritaria.
Ammettiamo pure che questa sia stata una sorta di rivoluzione burocratica e “comunicativa” di cui il Pd sentiva il bisogno, dopo i dieci segretari nominati e spariti nel giro di quindici anni, dopo risultati elettorali modesti e un declino implacabile rispetto alla visione, al modello di società che il Pd avrebbe dovuto proporre.
Alcuni giudicavano questo modello confuso, altri incomprensibile. E il riscontro di questa immagine opaca che appariva all’esterno usciva anche dalle urne, dove la vecchia classe operaia si era messa a votare più Lega che Pd, oppure dal contrasto incredibile del voto al Pd nel centro delle città e dell’astensione o del voto contro delle periferie.
Il mondo catto-comunista italiano, erede del comunismo filosovietico e del cattolicesimo che cercava il “compromesso storico”, è lentamente evaporato non solo dopo la caduta del Muro di Berlino, ma per tutti gli anni successivi che hanno indebolito l’Italia tra scandali politici gestiti da una magistratura con un’azione più che discutibile e da un bipolarismo sostanzialmente falso che non ha risolto i problemi del Paese, adagiandosi piuttosto ad accettare la raffica delle privatizzazioni, il rifiuto di un’economia mista, la svolta neoliberista guidata dalla finanza, una globalizzazione che ha accentuato in modo spaventoso le diseguaglianze sociali, una precarietà a livelli ottocenteschi nel mondo del lavoro.
Ci si può legittimamente chiedere: che cosa ha fatto politicamente e concretamente il Pd contro tutto questo?
È probabile che in questa confusione ideologica, la candidatura di un tardo-riformista come Stefano Bonaccini, esponente classico della parabola comunista e post-comunista, un emiliano che riesce a far convivere via Stalingrado, la statua di Lenin e il riformismo reale delle cooperative, ma anche la logica del capitalismo italiano, abbia rappresentato per molte persone del Pd una sorta di “declino continuo”, quasi arrivato al termine di una lunga parabola. La nomina a sorpresa di Elly Schlein è stata, in questo senso, una prima risposta.
Una donna giovane, vivace e attiva, che ribadiva e si richiamava polemicamente a un’identità di sinistra, è probabilmente apparsa come una sferzata al tran-tran del municipalismo ereditato dal Pci e modificato lentamente con “iniezioni” di riformismo che arrivano tardi rispetto ai tempi.
La parte cattolica, rispetto alla nomina di Schlein, ha reagito in modo duplice: una parte l’ha subito rifiutata, un’altra parte, come quella di Dario Franceschini, l’ha accettata e sostenuta perché ha avvertito la necessità di una scossa reattiva a un declino documentato settimanalmente dai sondaggi.
Quindi quello che appare soprattutto è che l’insuccesso della sinistra in questi anni, e addirittura la costituzione e la vittoria elettorale di un partito nazionale a destra che ha trasformato il centrodestra berlusconiano in un destra-centro meloniano, ha provocato un cortocircuito interno al Pd rimettendo tutto in discussione, a cominciare dal gruppo dirigente e poi dalla prospettiva politica da costruire.
C’è da aggiungere che in questa “rivoluzione” non esiste solo una prospettiva italiana, ma anche la possibile difficoltà di non avere più uno spazio determinante nell’Unione Europea di fronte a un possibile rovesciamento di alleanze: dal rapporto tra socialdemocratici e popolari a una coalizione tra popolari e partiti conservatori. Se questo si verificasse alle elezioni del 2024, Giorgia Meloni diventerebbe una protagonista europea, non solo italiana, di una quasi epocale svolta politica.
Traendo una prima conclusione, si può affermare che Elly Schlein è stata giudicata come “ultima carta” per il rilancio di un partito che apparteneva (l’imperfetto sembra d’obbligo) alla sinistra.
Ora si pone il problema se Schlein possa avere le possibilità di realizzare la rivoluzione che molti sperano, non solo all’interno del partito, ma anche nel panorama politico italiano.
Guardando solamente i primi sondaggi, in un momento politico molto turbolento, si può notare che in effetti il Pd ha riguadagnato posizioni, si parla di almeno oltre due punti e mezzo. Ma si deve anche notare che la coalizione di centrodestra è sempre più forte, e di molto, rispetto a quella di un ipotetico centrosinistra.
Il fatto è che i numeri fanno aumentare il Pd ma non ai danni di Fratelli d’Italia e neppure della Lega, ma piuttosto nei confronti dei possibili alleati 5 Stelle, che perdono più di un punto e mezzo, e della sinistra estrema e dei verdi che vengono ridimensionati quasi di un punto. In sostanza, dopo una settimana, poco tempo in realtà, il Pd è un partito che non è lontano dal 20 per cento, ma FdI è un partito che resta al 30 per cento.
Aspettando i prossimi voti virtuali, occorre anche vedere quello che accadrà all’interno del Pd con i cambiamenti che al più presto Elly Schlein farà nel nuovo gruppo dirigente. In un partito che si dice sia stato e sia ancora tanto diviso, è possibile che si ritrovi una slancio unitario e una unità che non sia solo di facciata?
Sembra che la maggioranza, tranne alcune defezioni, sia pronta a una collaborazione costruttiva, a cominciare dal battuto Bonaccini. Siamo sicuri che, sulla base delle primarie, con un partito spaccato a metà, si trovi una solida unità di intenti? Con tutti i complimenti per il successo della Schlein, qualche dubbio resta ancora in piedi.
Ma il problema diventerà, a nostra parere, ancora più problematico sulla piattaforma politica. Qui non si tratta di dare solo una sterzata a sinistra, non si tratta neppure di un ritorno a una sorta di massimalismo. In gioco ci sono problemi sociali, non solo sacrosanti diritti civili, su cui occorre trovare un’unità concreta e una visione coraggiosa.
Elly Schlein parla sempre delle grandi disuguaglianze che esistono, ma come intende ridurle? Se è stata la finanza e la globalizzazione la principale causa di queste disuguaglianze, come intende muoversi, con quale linea politica? Se il lavoro è al centro del suo programma, qual è la sua idea di un nuovo lavoro sicuro e dignitoso? E come dovrebbe essere tutelato di fronte ai cambiamenti tecnologici epocali? Sono problemi che non si possono solo elencare, ma occorre risolvere o almeno tentare di risolvere.
Con una vocazione di sinistra recuperata, si riuscirà a combattere il neocapitalismo che ancora domina un mondo in completo subbuglio? Si può, con un partito di sinistra, ma non più di governo, coniugare un assistenzialismo statale, a volte più che giustificato, con un capitalismo sempre più aggressivo e con le multinazionali che si muovono a livello mondiale?
Sono domande che vengono spontanee dopo questi ultimi anni di gestione post-catto-comunista. Ci sarà sempre il primo tesserato del Pd, anche nella nuova campagna di iscrizioni, che chiede per l’Italia una patrimoniale, mentre lui paga le tasse in Svizzera?
Infine ci sono i problemi di una guerra che non finisce, che si allarga e su cui si dovrà prendere una posizione. Infine, sarà possibile, sui problemi dell’immigrazione, una convergenza tra il nuovo segretario del Pd e l’ex ministro Minniti? Non sembra un dettaglio in questo periodo e spiega le difficoltà che dovrà affrontare il futuro Pd, se si chiamerà ancora così. Domani cominceremo ad avere qualche risposta.
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