Lo storico inglese Thomas Carlyle chiamava l’economia “la scienza triste” perché a suo dire era in grado di fare solo previsioni infauste e per giunta a posteriori. Non occorre essere uno scienziato per fare la Cassandra a disastro ormai compiuto. Così non si eleva ma si abbatte il morale e le aspirazioni dell’uomo, chiosava il Carlyle, le quali, verrebbe da aggiungere, essendo già abbastanza basse di per sé non hanno certo bisogno della spinta di divinazioni disgraziate.
Con il suo aspetto giovanile e il tono energico della voce, il dottor Ingo Sauer, professore di macroeconomia ed economia internazionale all’università di Francoforte, sembrerebbe smentire la vulgata della scienza triste. Ma le sue parole rimettono subito in riga. Perché la Germania è (ancora) un paese ricco? si domanda il professor Sauer in una lezione che su Youtube ha fatto quasi mezzo milione di visualizzazioni. La risposta è semplice e al contempo inquietante perché fa capire quanto perfino il benessere di un paese economicamente solido come la Germania sia precario.
Detto molto semplicemente un paese è ricco quando può permettersi molti beni di consumo, e dal momento che non tutti i beni di consumo possono essere prodotti internamente, un paese è ricco quando può importare molto. Ma le importazioni non sono regali, bisogna pagarle. Come? Attraverso le esportazioni. Quindi, per potersi permettere beni di consumo a piacimento un paese deve avere successo sui mercati internazionali.
In generale un paese ha successo sui mercati internazionali se a) offre prodotti che gli altri non hanno o b) offre gli stessi prodotti ma di qualità superiore oppure c) offre gli stessi prodotti a prezzi inferiori. Nel primo caso si parla di innovazione, nel secondo di qualità, nel terzo di competitività. Il terzo caso lo liquidiamo subito, perché significa che le aziende coinvolte subiscono il mercato offrendo prodotti standard facendosi concorrenza al ribasso. Il che non consente l’accumulazione di capitale e in definitiva non contribuisce all’aumento della ricchezza del paese che, per difendere i suoi mercati, sarà costretto a svalutare sempre di più oppure, se non dispone di valuta propria come i paesi dell’area euro, a comprimere i costi.
È il caso di molti paesi sudamericani oggi oppure la Germania del XIX secolo. Nell’ottocento infatti, la Germania era un paese dall’industria emergente che produceva a basso costo copie dei prodotti inglesi che allora rappresentavano il top del mercato. I tedeschi facevano quello che i cinesi hanno fatto fino all’altro ieri: prodotti copiati di qualità inferiore venduti a prezzi stracciati. E lo facevano così bene che gli inglesi obbligarono i produttori tedeschi a identificare le loro merci con la targhetta Made in Germany, per renderne riconoscibile la bassa qualità. Fu solo verso la fine del XIX secolo che la Germania iniziò a produrre beni di qualità superiore e il Made in Germany passò da marchio patacca a sinonimo di qualità.
Ed eccoci alla seconda fase, dove il successo sui mercati internazionali è ottenuto grazie a produzioni di qualità. Si tratta di una fase positiva, che consente di imporre i prezzi al mercato invece di subirli, ma precaria perché presto o tardi la concorrenza si farà sentire anche su questo fronte e inevitabilmente i prezzi ne risentiranno. È il caso, ad esempio, dell’industria dei televisori un tempo dominata dai tedeschi con marchi come Grundig e Telefunken che spadroneggiarono grazie alla loro qualità fino agli anni Novanta del secolo scorso, quando furono fatti a pezzi dalla concorrenza asiatica.
Il che ci porta inevitabilmente alla fase uno, ovvero avere successo sui mercati internazionali offrendo prodotti che nessuno sa (ancora) fare. In una parola: le innovazioni. Per farle occorrono gli innovatori, persone cioè capaci di ideare prodotti nuovi, impensati fino a quel momento e in grado di rispondere a un bisogno in modo efficiente. A sua volta gli innovatori per sbocciare hanno bisogno di un ambiente aperto alle novità, stimolante, proiettato verso il futuro, che sappia offrire opportunità e valorizzare le innovazioni. Solo con gli innovatori è possibile passare dalla terza alla seconda e infine alla prima fase. Senza si è destinati a cuocere al fuoco lento dei “prenditori di prezzi” che condanna all’impoverimento.
Da questo punto di vista come siamo messi in Europa? Innanzi tutto, occorre fare un’osservazione banale forse, ma essenziale. Le innovazioni, come le rivoluzioni, non le fanno i sessantenni ma i giovani. E per un continente europeo che invecchia a vista d’occhio questa non è una buona notizia. Meno bambini, meno giovani, meno creativi, meno innovazioni. E si torna dritti alla fase tre senza passare dal via.
La situazione rimane brutta anche quando la si guarda dall’altra parte, dal punto di vista delle generazioni più attempate. Quando i baby boomers andranno in pensione, cioè dopodomani, con loro se ne andrà una generazione di ex-innovatori di grande esperienza e capacità tecnica; professionisti in grado di creare opportunità per i più giovani e reggere la concorrenza sui mercati internazionali. Presumibilmente con la loro ritirata non si libereranno posti di lavoro, come spera la politica che così si troverebbe il problema bello che risolto senza aver mosso un dito, ma al contrario spariranno opportunità.
Poi bisogna considerare le differenze tra paese e paese. Secondo il Bloomberg Innovation Index che misura i brevetti depositati e la capacità delle economie di innovare in campo high tech e manifatturiero, la Germania si piazza al primo posto tra le nazioni più innovative superando la Corea del Sud che aveva tenuto la prima posizione per sei anni di fila. Il punto critico però è il fatto che la maggior parte delle innovazioni tedesche riguardano il settore automotive, che ha un destino incerto. La situazione potrebbe cambiare radicalmente in peggio nel prossimo futuro, quando la rivoluzione digitale entrerà a regime e inizierà a tritare le economie. Non è scontato che la Germania rimanga un paese ricco, lascia intendere il dottor Ingo Sauer nella sua lezione.
Per l’Italia invece è buio già adesso. Siamo al posto 19 dietro a tutti i paesi industriali a parte il Canada e l’Australia che hanno un quarto dei nostri abitanti, ma non è tanto questo a preoccupare quanto questo: “Ricerca e innovazione in Italia hanno vissuto una crisi che ha aggravato le debolezze legate ad un’attività tecnologica poco sviluppata, dovuta a più fattori. Alcuni di questi sono la poca attenzione rivolta a settori come ricerca e sviluppo, alla presenza di poche grandi e medie imprese, all’acquisizione di molte aziende italiane innovative da parte di multinazionali straniere, alla difficoltà a finanziare l’innovazione e alla modesta percentuale di laureati, oltre che alla disparità tra nord e sud presente da sempre nel nostro paese (…) Il Ministero dello Sviluppo italiano non ha creato una politica a sostegno della ricerca in Italia e degli investimenti innovativi delle imprese, e quel che c’è non è sufficiente ad aiutare le imprese ad acquisire le competenze tecnologiche per competere con gli altri paesi europei”. Sono le parole con le quali PMF Research, un’azienda specializzata in ricerca e sviluppo nel settore dell’Information and Communication Technology, commenta il desolante quadro italiano.
Ricapitolando: crollo demografico, baby boomers prossimi alla pensione e nessuna politica, nemmeno abbozzata, a sostegno della ricerca e sviluppo. Così la fase tre è assicurata per i prossimi cento anni.
Ciò che stupisce è che questo disastro avvenga nel più totale silenzio. Un intero paese si sta inabissando come il Titanic mentre la politica ciarla di identitarismo, fascismo, populismo, sovranismo sì sovranismo no e canti partigiani da intonare a scuola. Stiamo per tornare ad essere un paese povero con le pezze dove non batte il sole e non stiamo facendo assolutamente nulla per impedirlo. Nulla. Come se la cosa non ci riguardasse. Come se ci fossimo già arresi.