Da tre mesi l’Europa è entrata in un metaverso scandito da immagini di morte, azioni militari d’invasione, l’eroica resistenza, distruzioni, massacri, profughi, informazioni contrapposte, accuse, smentite, controaccuse, verità senza certezze, emozioni, solidarietà, controffensive, ritorsioni, minacce, sicurezze, insicurezze, fragilità, sofferenze, gas, petrolio, energia, alternative, approvvigionamenti, aiuti, armamenti, inflazione, recessione, stagflazione, mediazioni, e telefonate.
L’Europa “dei valori” sempre più unita vuole includere nuovi membri, la Nato “della libertà e democrazia” espande i suoi territori, L’America è tornata in Europa ma va nel Pacifico, la Russia fa la Russia ma deve restare in Russia, la Cina è lontana e tale deve restare, il resto del mondo resta più affamato e al buio.
Martedì (24 maggio) dal forum della finanza globale la presidente della Commissione europea ha scandito che “l’Ucraina deve vincere” e che “è Putin il responsabile per l’impressionante aumento dei prezzi dell’energia in Europa e nel mondo”. L’Europa “dei valori”, secondo Ursula von der Leyen, è “buona” e Putin è “cattivo”. Un ragionamento mediocre e infantilizzante che non si capisce a nome di quali governi abbia pronunciato (fatta eccezione di polacchi, ucraini e baltici). Lunedì (23 maggio) il presidente Biden dal Giappone ha affermato che “l’America ricorrerà alle forza militare in caso di invasione cinese di Taiwan”, come dire che una seconda Ucraina non sarà tollerata, ma ha anche lanciato l’Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity (Ipef) con una dozzina di partner iniziali: Australia, Brunei, India, Indonesia, Giappone, Repubblica di Corea, Malesia, Nuova Zelanda, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam. Insieme rappresentiamo il 40% del Pil mondiale, ha dichiarato Biden.
L’intento è duplice: da un lato, l’avvertimento militare alla Cina, dall’altro, la sfida commerciale. Un accordo quadro che non crea una zona di libero scambio, anzi necessiterà di numerose complesse transazioni interne per funzionare. La Cina, nel 2020, aveva concluso il Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) che è un vero accordo di libero scambio tra le nazioni dell’Asia-Pacifico di Australia, Brunei, Cambogia, Cina, Indonesia, Giappone, Corea del Sud, Laos, Malesia, Myanmar, Nuova Zelanda, Filippine, Singapore, Thailandia, e Vietnam (15 Paesi membri, circa il 30% della popolazione mondiale – 2,2 miliardi di persone – e il 30% del Pil globale) che con il suo valore di 29,7 trilioni di dollari è il più grande blocco commerciale della storia. Insomma, l’Unione Europea è alla rincorsa morale (sic!) e gli Stati Uniti sono a quella commerciale. Due tattiche deboli e nessuna strategia.
Venerdì (20 maggio), S&P 500 cade nel territorio del mercato ribassista, in calo del 20% da gennaio. Le azioni sono scese per sette settimane consecutive, il peggior periodo dal 2001. I tentativi della Federal Reserve di ridurre l’inflazione (alzando i tassi) sono una delle ragioni principali per cui i prezzi delle azioni stanno scendendo, scrive il New York Times. Dopo la forte opposizione del presidente turco Recep Tayyip Erdogan all’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia, mercoledì il presidente croato Zoran Milanovic ha dichiarato che avrebbe incaricato anche il rappresentante permanente del suo paese presso la Nato di votare “no”.
La Cina fa sapere al presidente Biden appena sbarcato in Giappone e Corea che il mondo ha bisogno di uno spirito aperto, non dei piccoli circoli guidati dagli Stati Uniti volti a interrompere la catena industriale globale.
Intanto, giovedì (19 maggio) il Senato US ha approvato un pacchetto di aiuti d’emergenza da 40 miliardi di dollari per l’Ucraina, ma con un piccolo gruppo di repubblicani isolazionisti che criticano a gran voce la spesa e la guerra – che sta entrando in una nuova e complicata fase – non è garantito un continuo sostegno bipartisan. Ma mentre la guerra continua, Biden dovrebbe anche chiarire al presidente Volodymyr Zelensky e al suo popolo che c’è un limite all’entità del contrasto di Usa e Nato contro la Russia, e un limite alle armi, al denaro e al sostegno politico che possono raccogliere.
È indispensabile che le decisioni del governo ucraino si basino su una valutazione realistica dei propri mezzi e di quanta distruzione l’Ucraina possa ancora sostenere. L’America di Biden non sembra pronta alla complicata guerra in Ucraina, scrive il Nyt. “La vittoria dell’Ucraina contro la Russia non è realistica”, sostiene il quotidiano americano, “la guerra entra in una nuova difficile fase. Una vittoria su Mosca in cui l’Ucraina riconquista tutto il territorio che la Russia ha conquistato dal 2014, non è un obiettivo realistico. Sebbene la pianificazione e i combattimenti della Russia siano stati sorprendentemente sciatti, Mosca rimane troppo forte e Putin ha investito troppo prestigio personale nell’invasione per fare marcia indietro” .
Un risveglio doloroso e burrascoso dall’illusione di normalità post-pandemica che il generoso “recupero” (Recovery) finanziato dal debito comune europeo prometteva. Secondo gli analisti di Goldman Sachs, l’Europa continuerà a essere vulnerabile al conflitto in Ucraina, a causa della militarizzazione della questione energetica. Di conseguenza, la volatilità dei mercati continuerà ad essere elevata, e l’inflazione potrebbe rimanere elevata e persistente per più tempo del previsto. Su queste pagine, si avverte che sembra proprio che stiamo per affrontare un mix letale di inflazione alle stelle e flussi migratori assolutamente incontrollabili, particolarmente da Egitto e Libia.
La Commissione europea ha presentato mercoledì (18 maggio) un piano da 300 miliardi di euro per eliminare le importazioni russe di energia entro il 2027, anche se ha ammesso che ciò richiederebbe investimenti a breve termine in nuove infrastrutture per i combustibili fossili per sostituire le importazioni di petrolio e gas russi. Dal “recupero” alla “ri-alimentazione” (RePower) la Commissione europea vuole ridurre di due terzi la dipendenza dal gas russo, con l’obiettivo di liberarsene completamente entro il 2027, accelerando con draconiane misure (tra i quali l’obbligo di pannelli solari su tutti gli edifici pubblici) per raggiungere l’obiettivo del 45% dell’energia elettrica prodotta da rinnovabili.
Giovedì (19 maggio) ha deciso obblighi di stoccaggio del gas obbligatori per i paesi dell’Ue, con l’obiettivo di riempire almeno l’85% degli stoccaggi del blocco entro il 1° novembre 2022. Ma ancora non ha chiarito se il gas russo, che per ora continua ad arrivare, si può pagare in rubli nonostante le sanzioni applicate alla Russia. Un attivismo di cui si deve dare atto alla leadership di Ursula von der Leyen, ma allo stesso tempo non si può chiamare tutto questo una strategia. Per quanto “verdi” siano le misure adottate, per quanto siano comprensibili le pulsioni militariste di Josep Borrell che da capo della diplomazia europea ha indossato l’elmetto e propone di accelerare sulla “difesa europea” e usa il fondo europeo per la pace (Peace Facility) per comprare e inviare armi all’Ucraina, non si capisce più quale sia il progetto europeo. Dove stiamo andando? Nessuno lo sa a Bruxelles, però l’ordine di marcia è: Andiamo!
Intanto, il Regno Unito scopre che la Global Britain resta un sogno irrealizzabile, ma il suo ministro degli Esteri attacca Macron e Scholz (e forse anche Draghi) che vorrebbero al più presto una tregua dichiarando “che la Russia si ritiri dall’intero territorio ucraino e non sia più in grado di aggredire i vicini”, e soprattutto aggiunge “non sono d’accordo con l’idea di Macron che non bisogna umiliare la Russia e di trovare una via di uscita per Mosca. Putin deve perdere in Ucraina e dobbiamo vedere restaurata la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina: su questo siamo molto chiari”.
Siamo senza una strategia! Gli Stati Uniti, la Russia e l’Europa hanno bisogno di idee nuove!
L’Ue vagheggia di essere una fortezza dei “valori” che sembrano essere quelli che Ursula von der Leyen ha sintetizzato nella misteriosa (e piuttosto odiosamente relativista) “European way of life”. Le libertà, si dice, come quella d’espressione, e i diritti umani, lo stato di diritto. Concetti vecchissimi e idee da primo 900, quando l’Europa era il centro del mondo, quando nell’Europa degli assolutismi si muovevano le prime mosse per una giustizia sociale che abbiamo chiamato democrazia, e quando il mondo era l’Europa liberale con le sue potenze coloniali che hanno permesso il “trasferimento” di ricchezze senza il quale non si poteva (e voleva) finanziare il benessere diffuso europeo (welfare). Siamo proprio sicuri che abbia senso lottare, oggi, per i propri valori, o, ormai, per la dissacrazione di tutti i valori come proprio nuovo valore, di ritenere verità i propri dogmi e le proprie congetture, e propria missione imporli?
Gli Stati Uniti si dimenano da alcuni decenni nel tentativo (velleitario) di salvare quell’ereditata (e detestata) corona, simbolo dell’egemonia mondiale, che fu britannica e poi repubblicana, in una democrazia che non è sociale ma solo procedurale per il contenimento del potere esecutivo (non a caso imperniata sui famosi check and balances), usando i mezzi più classici della potenza dominante, la spada e la moneta, per nascondere a sé stessi e al mondo una realtà basata sull’esportazione del costo dei propri ineguali stili di vita (attraverso il debito e la forza militare) e una capacità d’innovazione da tempo declinante soprattutto a causa di un pessimo modello e sistema educativo.
Anche gli Stati Uniti si trincerano dietro alle ormai vecchie (e irrilevanti) visioni universalistiche originarie dell’Europa, da quelle wilsoniane a quelle grette, perché in fondo commerciali, rooseveltiane che promettono patrie, libertà e ricchezza per tutti. Imponendo una Lex mercatoria, gli Stati Uniti perseguono nell’errore di scambiare il mezzo con il fine, illudendosi che l’Uno sia il tutto. Mancano di un’idea! Voler essere dominanti gli impone l’obbligo di costruire un mondo in pace basato su regole comuni, e comunemente create e riconosciute. La potenza mondiale senza uno ius publicum rischia di trasformarsi in tirannia.
La Russia se non è impero non è Russia, lo sapevano gli Zar ma anche Stalin e lo sa anche Putin. Una non-Russia, ovvero una Russia spacchettata, non la vogliono i russi ma soprattutto non è conveniente a nessuno nel mondo. Lo sapeva anche Pietro il Grande, così come lo sapevano Lenin, Gorbačëv e Eltsin, che, ciascuno a suo modo, cercarono di far vivere l’impero, e quindi la Russia, bicefala e unico Stato multinazionale, multireligioso e multilinguistico del pianeta, portandolo verso orizzonti di modernità e riforme, principalmente a beneficio dei suoi popoli russi. Il problema, da sempre, di chi ha il potere in Russia è di mobilitare il popolo attorno a un’idea che dia uno “spirito” allo Stato. Le ideologie non si usano più da tempo, ovunque nel mondo, le religioni sono risorte, con molta evidenza in Russia, ma è solo l’accettazione, il riconoscimento della civiltà russa, la sua cultura e la sua identità, che può dare alla Russia la forza pacifica di modernizzare il suo essere impero.
L’Occidente ha condannato la Russia come civiltà, più volte nei secoli e ancora oggi a causa della guerra in Ucraina. La Russia, anche oggi, è in lotta per la sua sopravvivenza. Una lotta che disgraziatamente non è pacifica, ma non per questo non può essere vittoriosa. Ripetere gli errori passati significa non capire che la storia non è statica ma è evoluzione. La russofobia, le sanzioni, l’umiliazione e i muri sono tutte misure che non hanno senso storico quando si approccia la Russia. Intanto, il rublo e l’economia russa sono tra le migliori performance del 2022
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