Aprile non sarà il mese più crudele al contrario di quel che scriveva Thomas S. Eliot ne “La terra desolata”, ma per l’economia sarà senz’altro il mese della verità, ancor più per l’economia italiana. La congiuntura è debole, l’inflazione è scesa al 2,9% in dicembre, ma la Bce non si muove. Il consiglio direttivo giovedì ha deciso di lasciare i tassi al 4,5%. E l’ha fatto a bella posta per ridurre la domanda, come ha spiegato nel comunicato finale. La Bce si rallegra perché la stretta funziona, ma funziona solo nella direzione che porta alla stagnazione, data per scontata quest’anno, anche se nella seconda metà del 2024 si potrebbe vedere una certa risalita.



Prima di abbassare i tassi di interesse “dovranno essere sicuri che la battaglia contro l’inflazione sarà vinta”, ha commentato durante un convegno a Milano Gregorio De Felice, chief economist di Intesa Sanpaolo. E ha aggiunto: “Forse con un altro Presidente della Bce i ribassi sarebbero più repentini, ma chi decide è il direttivo di Francoforte. E nonostante ci sia già spazio per ridurre i tassi, temo che le attese mercato, che vedono sei ribassi nel 2024 per chiudere con tasso di riferimento sotto di 150 punti base, verranno deluse”. De Felice ha spiegato che “c’è un grande divario tra ciò che pensa il mercato e le previsioni di molti economisti. Noi siamo particolarmente prudenti nell’ipotizzare una serie di ribassi, dobbiamo distinguere tra quello che sarebbe giusto fare e quello che, con il nostro lavoro, siamo chiamati a fare: cioè previsioni”.



In cima alle aspettative dei mercati c’è la possibilità che la svolta della politica monetaria cominci ad aprile. La Presidente Lagarde non ha annunciato nulla, ma leggendo le sue labbra non lo ha escluso, sostengono i più ottimisti. Per il Governo italiano sarebbe il boccone d’ossigeno del quale c’è molto bisogno proprio nel mese in cui bisognerà rifare i conti e presentare il Documento di economia e finanza. Tutte le previsioni e le coordinate sulle quali si è basata la Legge di bilancio per il 2024 si sono rivelate sbagliate, con una sopravvalutazione della crescita (1,2% è il doppio di quel che sembra oggi più probabile) e una sottovalutazione del peso che il rallentamento economico ha sulle entrate. Mentre non sarà possibile garantire che la spesa corrente sul Pil non debba crescere per sostenere il mercato del lavoro. Basta dare un’occhiata ai tavoli di crisi aperti per capirlo. Sperando che non capiti il peggio, cioè un’emorragia di posti di lavoro dal più grande gruppo manifatturiero privato, cioè Stellantis. I segnali ci sono, ben più che scricchiolii.



Ne è consapevole il ministro dell’Economia e Giancarlo Giorgetti si è impegnato in una corsa contro il tempo nel tentativo di trovare entrate straordinarie per il momento in cui bisognerà mettere per iscritto i numeri chiave per la prossima finanziaria. La mossa eccezionale della quale si parla è la vendita di quote delle aziende a partecipazione statale, sperando di raccogliere sul mercato 20 miliardi di euro. Ed è già polemica. L’opposizione attacca: l’Italia in vendita (titolone della Repubblica). In realtà, non si tratta di questo e se l’opposizione fosse meno demagogica avrebbe altri validi argomenti per criticare.

Le chiamano privatizzazioni, ma nessuna azienda pubblica diventerà privata come è avvenuto nella seconda metà degli anni ’90 per Telecom, Italsider o Autostrade. Sono vendite per far cassa. E l’operazione non sarà affatto un pranzo di gala. Per esempio, bisogna calcolare che attraverso la cessione di quote pregiate, nel Tesoro entreranno meno dividendi dalle aziende partecipate, che fanno molti utili. Prendiamo il 4% dell’Eni che il Governo vuole vendere, ha prodotto proventi per 125 milioni di euro, a fronte dei 94 milioni di prevedibile onere del debito che verrebbe ridotto con il collocamento sul mercato. Poste nel 2022 ha staccato, solo al Mef, 250 milioni di euro di cedola, a cui va aggiunta quella di Cassa depositi e prestiti. Circola, come da tempo, l’ipotesi di una quotazione di Ferrovie e si potrebbe arrivare addirittura a vendere fino al 40%, ma attenzione interessa al mercato solo la polpa, cioè l’Alta velocità, il resto è sussidiato dal Governo. Quanto al Monte dei Paschi di Siena che deve essere davvero privatizzato non trova acquirenti. Forse perché vale poco? In borsa capitalizza appena quattro miliardi di euro. Insomma, non è tutt’oro quel che luce nei “gioielli di famiglia”. Non è oro e non è luce.

È chiaro, dunque, che la vendita di quote delle aziende pubbliche, ammesso che si realizzi in tempo per la prossima finanziaria, non sarà sufficiente a riempire la cassa del Tesoro che è ridotta al minimo. E non basteranno nemmeno gli introiti del Pnrr, ammesso che arrivino tutti e rispettando le scadenze. Con un prodotto lordo che langue, per rispettare i criteri europei di bilancio e non gonfiare ancor di più il debito pubblico, bisognerà ricorrere a una stretta fiscale. Se nel frattempo la politica monetaria diventerà più espansiva, sarà possibile evitare un doppio colpo alla congiuntura economica. Altrimenti saranno guai.

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