Aprendo la conferenza stampa di fine anno, il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha evidenziato che “non sappiamo quale sarà lo sviluppo dell’economia italiana nel 2024: la crescita stimata, e questo è un buon dato, è superiore alla media europea”. Come ricorda Mario Baldassarri, ex viceministro dell’Economia e presidente del Centro studi EconomiaReale di Roma e dell’Istao di Ancona, tuttavia, «resta il problema di un rallentamento economico che riguarda tutta Europa e su questa base è stato purtroppo raggiunto un accordo sul nuovo Patto di stabilità che continua ad avere il cancro del precedente».
Quale?
Non viene riconosciuto un principio cardine della teoria economica della crescita, ovvero che gli investimenti pubblici non possono essere considerati alla stregua della spesa corrente. Finché non viene fatta questa cruciale distinzione si continuerà a perseguire un traguardo sbagliato, quello del mero raggiungimento di un parametro riguardante il rapporto deficit/Pil: non è che concedendo più tempo per conseguirlo, come avviene con il nuovo Patto di stabilità, il traguardo diventa giusto. Sembra che l’esperienza empirica degli ultimi 20 anni, che mostra che tutta Europa è cresciuta la metà degli Stati Uniti, non sia servita a nulla.
Di fronte a questa situazione cosa si può fare per cercare di spingere la crescita nel nostro Paese?
Ormai è chiaro che nel 2024 potremo raggiungere una crescita pari a circa metà di quella che era stata prevista nella Nadef, ma non faremo meglio nei prossimi tre anni: ci attesteremo sempre su uno zero virgola. Non serve, quindi, uno stimolo congiunturale, ma occorre una spinta strutturale tramite le riforme. In testa a tutto c’è la piena realizzazione del Pnrr. In ambito europeo questo dovrebbe implicare che il Next Generation Eu, che terminerà nel 2026, dovrebbe diventare permanente.
Questo potrebbe controbilanciare gli effetti del nuovo Patto di stabilità?
Come minimo. Sarebbe anche un passo verso un embrione di bilancio federale europeo, che serve come il pane, perché tutte le grandi reti infrastrutturali fisiche, materiali, immateriali dovranno essere europee, non più nazionali, come accade, per esempio, ancora oggi nel caso delle reti energetiche. C’è da auspicare che questo diventi uno dei punti programmatici della campagna elettorale delle prossime europee. Tornando al tema delle riforme, mi lasci chiarire una cosa.
Prego.
Quella fiscale che è stata varata dal Governo va nella direzione giusta, ma con una velocità minuscola. La mia idea è che la riforma dell’Irpef debba comportare uno sgravio di 40 miliardi, non di 4, che vanno tutti coperti tagliando le tax expenditures, i sussidi a fondo perduto e tutte quelle componenti di spesa ed entrate che sono come nidi di vipere: purtroppo, quando vi si mette mano c’è il rischio di farsi male. Alla riforma del fisco vanno aggiunte quelle della giustizia, della Pubblica amministrazione e della concorrenza.
Di concorrenza si sta proprio discutendo in questi giorni…
Tutti sono presi a discutere di balneari, tassisti e ambulanti, cose anche importanti per carità, ma si tratta di pagliuzze nell’occhio del vicino che trascurano il trave nel proprio rappresentato dal fatto che sul mercato dell’energia non c’è concorrenza e lo Stato ha stanziato negli ultimi due anni 100 miliardi di sussidi a famiglie e imprese contro il caro bollette che si sono trasformati in 100 miliardi di extraprofitti delle imprese energetiche italiane. Dunque, se concorrenza dev’essere la si faccia davvero.
In che modo?
Si faccia il mercato unico dell’energia in Europa. In Italia occorre che le bollette vengano collegate al prezzo effettivo del gas importato in base alle dichiarazioni doganali e non al Ttf di Amsterdam, che è un mercato speculativo-finanziario che scambia quantità ridicole di gas. Ci troveremmo in un oligopolio, ma quanto meno regolamentato. Nel frattempo continua a perdurare l’assordante silenzio dell’Antitrust italiana, con una beffa oltre al danno.
Quale beffa?
Il fatto che recentemente l’Antitrust ha multato le imprese energetiche per valori che vanno da 4 a 10 milioni di euro, rimanendo silenziosa sui 100 miliardi di extraprofitti realizzati.
Torniamo alla conferenza stampa del presidente del Consiglio. Meloni ha detto che se fosse necessario reperire risorse per prorogare il taglio del cuneo fiscale e la riduzione delle aliquote Irpef preferirebbe tagliare la spesa piuttosto che aumentare altre tasse…
Si tratta di un indirizzo corretto, che smentisce anche quel che viene ripetuto da anni, cioè che la coperta è corta, che non ci sono risorse. Non dobbiamo dimenticare che il Parlamento ha appena approvato il bilancio per il 2024 con 1.080 miliardi di spesa totale e 1.000 miliardi di entrate totali. Dentro a queste voci c’è la manovra finanziaria vera e propria, di cui 15 miliardi su 24 in deficit. Si agisce, quindi, solamente su 9 miliardi. Invece, tra quei 1.080 miliardi ce ne sono circa 140 di spesa improduttiva e tra le entrate mancano all’appello circa 100 miliardi di evasione. Di fatto, come ha detto l’ex Governatore della Banca d’Italia Visco per tre anni consecutivi, la madre di tutte le riforme è la ristrutturazione del bilancio pubblico dal lato della spesa e dal lato delle entrate.
Quest’anno sarà quello buono per questo intervento?
Occorre che ci sia una politica decisa e determinata, che abbia una forte maggioranza in Parlamento e prospettive di Governo di medio termine. Queste condizioni ci sono, quindi l’occasione c’è.
Meloni ha anche ricordato il peso degli alti tassi di interesse sui conti pubblici. Pensa che la Bce quest’anno taglierà il costo del denaro?
Penso che il picco dei tassi di interesse sia stato raggiunto nel 2023. La discesa rapida dell’inflazione dovrebbe indurre la Bce a ridurre i tassi. Credo che lo farà, ma con prudenza, quindi potrà arrivare un piccolo sostegno alla crescita e al bilancio pubblico, tenuto conto, però, che a incidere sugli oneri degli interessi non ci sono solo i tassi, ma anche il totale del debito.
Cosa si può fare per ridurre il debito?
Bisogna aumentare la crescita, c’è poco da fare.
Non potrebbero essere utili le privatizzazioni?
Già quando partirono le prime trent’anni fa sostenevo che occorre aver chiaro in mente che non si privatizza per fare cassa, ma per una strategia industriale. Detto questo, i proventi delle privatizzazioni andrebbero destinati a ridurre il debito pubblico, non certo ad aumentare la spesa o ridurre le tasse. Comunque occorre capire che i 25 miliardi da privatizzazioni vanno rapportati ai quasi 3.000 miliardi di debito pubblico, un’inezia.
(Lorenzo Torrisi)
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