La produzione industriale a maggio è cresciuta dell’1,6% rispetto ad aprile, mentre in termini tendenziali è calata del 3,7%. Nella media del periodo marzo-maggio il livello della produzione è diminuito dell’1,8% rispetto ai tre mesi precedenti. Secondo Marco Fortis, direttore della Fondazione Edison e docente di Economia industriale all’Università Cattolica di Milano, il dato comunicato ieri dall’Istat è importante perché «mostra che dopo il calo mensile di aprile non ce n’è stato un altro, ma addirittura vi è stata una risalita. Se poi guardiamo ai primi cinque mesi dell’anno, la produzione manifatturiera, escludendo l’energia, rispetto allo stesso periodo del 2022 è diminuita del 2,4%».
È un calo che deve preoccupare?
No, considerando sia la recessione tecnica dell’Eurozona che la fine dei superbonus edilizi, che hanno determinato una produzione straordinaria per le industrie del legno e della ceramica e per la metallurgia, è un calo che ci sta. Penso ci sarà una stabilizzazione progressiva ed è chiaro che quest’anno la produzione industriale contribuirà poco al Pil. Fortunatamente, i servizi continuano ad andare bene, diversamente da altri Paesi abbiamo l’arma del turismo, senza dimenticare che i consumi delle famiglie nel primo trimestre sono cresciuti di oltre il 3% su base annua. Inoltre, continuano ad aumentare le esportazioni extra-Ue, il che dimostra che non c’è in questo momento un problema di competitività nell’industria italiana: si tratta di adattarsi a un contesto esterno che si è modificato.
In Germania si paventa per l’anno prossimo una riduzione della spesa pubblica che colpirà anche le infrastrutture e i sostegni alle famiglie con figli. Questo danneggerà le nostre esportazioni?
Si fatica francamente a capire la politica economica tedesca. Da un lato, Berlino stanzia sostegni all’industria per i prossimi anni per gestire la transizione energetica che non sono nell’impostazione dissimili da quelli dell’Ira varato dagli Stati Uniti, una strada di nazionalismo per gli aiuti alle imprese piuttosto che il perseguimento di un progetto europeo. Dall’altro, c’è forse la necessità di voler dimostrare che in una fase in cui si stanno ridiscutendo le regole fiscali europee la Germania prosegue la sua linea tradizionale di rigore sui conti, ma in piena recessione. La situazione è un po’ caotica e il Governo, a detta degli stessi tedeschi, appare incerto, con l’uscita di scena della Merkel non sembra esserci una vera leadership. Questo non aiuta un Paese che deve compiere delle ristrutturazioni importanti sul piano industriale, a partire da un settore chiave come l’automotive, e che ha patito il doppio shock del venir meno di due pilastri del suo modello che sembrava vincente: gas russo a prezzi stracciati e rapporto stretto con la Cina.
In Germania c’è poi una forte sensibilità all’inflazione, che a giugno è cresciuta è al +6,4% dal +6,1% di maggio.
Sì, la particolare sensibilità tedesca all’inflazione non solo pesa in seno alla Bce, ma ha anche provocato un mini-shock che ha portato la popolazione a tagliare i consumi, che sono diminuiti nel primo trimestre del 2%. Se, come paventato nel piano sul bilancio pubblico dell’anno prossimo, verranno tagliati alcuni sussidi alle famiglie le cose di certo non miglioreranno. La Germania resta il perno dell’Eurozona e fintanto che non si riprenderà anche gli altri Paesi ne risentiranno. Non è un caso che tutti quelli più legati alla sua economia, come l’Olanda, l’Austria e gli Stati baltici non stiano andando bene. Nell’area dell’euro l’Italia rappresenta un’eccezione grazie alla dinamica della domanda interna, favorita anche dagli aiuti varati dal Governo Draghi e confermati in parte da quello Meloni.
Date le interconnessioni esistenti con l’industria tedesca, quella del Nord Italia soffrirà?
Sicuramente, ma bisogna anche considerare che abbiamo molto enfatizzato queste interconnessioni: non è che l’industria del Nord vive solo grazie alla Germania. C’è una tale differenziazione di prodotti e di mercati che le ricadute della performance tedesca non hanno conseguenze gravi. I dati sull’export extra-Ue di maggio segnalano aumenti tendenziali ragguardevoli per i Paesi Opec (+28,8%), la Cina (+14,8%) e il Giappone (+14,7%). Siamo in un momento in cui si stanno fortemente differenziando le dinamiche delle componenti (Ue ed extra-Ue) del nostro export.
C’è, quindi, da sperare che mentre l’Europa frena vada bene il resto del mondo…
Segnali in questo senso non mancano. Non dobbiamo comunque trascurare l’apporto della domanda interna, che appare ancora solida, grazie alla tenuta sia degli investimenti delle imprese che dei consumi delle famiglie, come si è visto dai dati del primo trimestre. Certo, è vero che si consumano più servizi che beni, ma sta riprendendo la domanda di quelli durevoli, come pure le immatricolazioni di auto. Questo ci aiuterà a mio avviso a traguardare le previsioni di crescita del Pil della Banca d’Italia (+1,3%). Poi credo che qualcosa del Pnrr alla fine si riuscirà a mettere a terra. Secondo me, l’Italia ha davanti a sé la possibilità di consolidare i progressi finora compiuti. Certamente con un’Europa che cresce così poco non si possono ripetere le performance del 2021 e 2022, ma la possibilità di mantenere la testa della corsa ce l’abbiamo tutta. Se guardiamo, infatti, alle previsioni Ocse, nel biennio 2022-23 l’Italia sarà il Paese del G7 con la più forte crescita del Pil (+5%).
(Lorenzo Torrisi)
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