La produzione industriale italiana ad agosto, come ha reso noto ieri l’Istat, è salita dello 0,1% su base mensile, ma ha fatto segnare un -3,2% tendenziale. Ma a fare notizia è ancora il taglio delle stime sul Pil operato dal Governo tedesco: la Germania chiuderà il 2024 con un calo dello 0,2% dopo quello dello 0,3% registrato nel 2023. Secondo le stime di Berlino, ci sarà un rimbalzo dell’1,1% nel 2025 e una crescita più sostenuta (+1,6%) nel 2026. Abbiamo chiesto un commento a Marco Fortis, direttore della Fondazione Edison e docente di Economia industriale all’Università Cattolica di Milano.



Cosa pensa della revisione comunicata dal ministro dell’Economia Habeck?

Una revisione di questo tipo era un po’ nell’aria, perché a fine settembre i principali istituti economici di ricerca della Germania avevano tagliato le loro stime sul 2024 portandole a -0,1%. È come se il Governo tedesco si fosse adeguato a un dato di fatto che viene anche riconosciuto come traspare dalle parole di Habeck, secondo cui l’economia “ha smesso di crescere in maniera significativa dal 2018 e adesso ai problemi congiunturali si somma l’acuirsi di quelli strutturali”. Mi sembra, tuttavia, un pia illusione quella di vedere una crescita dell’1,1% nel 2025: i principali istituti economici tedeschi si fermano al +0,8%, che resta in ogni caso difficile da raggiungere.



Perché?

Perché le condizioni di fondo della manifattura restano negative. Pensiamo solo ai problemi enormi dell’automotive tedesco, con Volkswagen che punta a tagli occupazionali senza precedenti, e alle incertezze sul mercato dell’auto elettrica che pare bloccato da mesi in tutta l’Ue. I concessionari europei di Stellantis hanno scritto una lettera a Ursula von der Leyen chiedendo di rivedere le norme sulle emissioni visto che non si riescono a vendere abbastanza auto elettriche anche perché i clienti finali spesso le rifiutano. Inoltre, il mercato mondiale è contraddistinto da un forte rallentamento degli scambi e questo non facilita un Paese esportatore come la Germania. Infine, il settore delle costruzioni è fermo da tempo e il rigore di bilancio non permette la benché minima parvenza di una politica di tipo keynesiano.



Habeck ha evidenziato che una riforma del “freno al debito” potrebbe favorire l’uscita dalla crisi, ma il ministro delle Finanze Lindner l’ha subito esclusa.

Il leader dei Liberali si è preoccupato di evidenziare che “lo Stato non può comprare la crescita con il debito”. Se è così, per l’economia della Germania non ci sono molte possibilità di ripartenza, almeno finché la situazione politica non si sbloccherà, magari con le elezioni del settembre 2025. Il problema è che nel frattempo si indebolirà anche il resto d’Europa che ha in quello tedesco un importante mercato di riferimento. Questo non vale solo per l’Italia. Pensiamo agli scambi con la Francia, alle attività portuali di Belgio e Olanda legate ai flussi commerciali tedeschi, agli impianti di produzione di colossi teutonici delocalizzati nell’Est Europa. I Paesi mediterranei, grazie anche al turismo, possono quanto meno avere una piccola arma in più rispetto a quelli del Nord Europa.

Oltre all’impasse politica, c’è anche un’industria automobilistica in Germania che sembra voler puntare ancora sull’elettrico.

C’è questa convinzione ferrea, pensano di avere una forza straordinaria, ma all’atto pratico non si capisce come un’industria come quella tedesca che pure produce vetture di livello possa cavarsela nel momento in cui la concorrenza cinese sembra in grado in prospettiva di conquistare anche il mercato di media gamma dell’auto elettrica. Forse c’è anche timore nel fare una retromarcia che sconfesserebbe una strategia intrapresa qualche anno fa. Una retromarcia, almeno parziale, che dovrà fare probabilmente l’Ue, visto che continuano a crescere le pressioni industriali per una revisione del Green Deal.

In Italia nel frattempo si è discusso tanto della revisione dell’Istat sulla crescita acquisita del primo semestre dell’anno e del Piano strutturale di bilancio (Psb). Lei cosa ne pensa?

Si può discutere quanto si vuole sulla revisione dell’Istat, ma è naturale che la crescita acquisita diminuisca quando viene aumentata quella dell’anno precedente che rappresenta la base del raffronto. Riguardo al Piano strutturale di bilancio, penso che verrà molto apprezzato dalla Commissione europea.

Per quale motivo?

Non solo perché il deficit/Pil viene portato sotto il 3% già nel 2026, ma anche perché il debito/Pil, nonostante l’effetto del Superbonus spalmato sui prossimi anni, arriverà a un massimo del 137,8%, un livello che sembra incredibile se pensiamo che nel 2020 eravamo al 155,2%. Già nel secondo trimestre di quest’anno il nostro debito/Pil era a un livello simile a quello del secondo trimestre del 2019. Lo stesso raffronto fatto per la Francia vede un aumento di 13 punti percentuali, mentre per gli Stati Uniti di ben 17 punti. Dunque, l’Italia è un Paese che galleggia abbastanza bene mentre i debiti pubblici esplodono un po’ ovunque e l’economia mondiale non cresce in modo brillante.

A proposito di Francia, il Primo ministro Barnier ha già annunciato che il deficit non scenderà al 3% del Pil prima del 2029.

La Francia, per la prima volta dal dopoguerra, deve porsi un problema di gestione dei conti pubblici e di contenimento della spesa. Basti pensare che, al netto degli interessi, negli ultimi quattro trimestri terminati il 30 giugno scorso il debito pubblico francese è aumentato al ritmo di 10 miliardi al mese, mentre quello italiano di poco più di un miliardo. Non si capisce come la Francia possa conservare, secondo Moody’s, un rating Aa2 quando quello dell’Italia è Baa3. Evidentemente le agenzie di rating non hanno ancora prezzato una crisi francese che è estremamente profonda. Non so come farà Parigi a ridurre il deficit/Pil al 3% senza tagli alla spesa che portino a rivolte sociali. D’altronde Oltralpe non c’è un benessere diffuso: l’unica area dove c’è un livello di reddito, a parità di potere d’acquisto, superiore alla media europea è l’Ile de France.

Detto dei problemi francesi, ne vede qualcuno anche in Italia?

Per l’Italia il vero problema è non riuscire a spendere tutte le risorse del Pnrr e su questo noto un’assenza di capacità di lettura anche da parte delle opposizioni. Bisognerebbe fare qualcosa, perlomeno cercare di posticipare i tempi di attuazione del Piano, visto tutto quel che è successo dopo il lancio del Next Generation Eu. Penso che su una richiesta di questo tipo, che è già stata formulata da Roma, l’Ue dovrebbe essere più flessibile.

È questo problema relativo al Pnrr a motivare la traiettoria discendente del Pil dopo il 2026 (+0,8% nel 2027 e nel 2028, +0,6% nel 2029) contenuta nel Piano strutturale di bilancio?

Non c’è solo questo. Lo stesso Giorgetti ha accennato a una problematica importante: con un saldo demografico negativo, e quindi con un numero decrescente di consumatori, come si può pensare di continuare a crescere più dell’1% l’anno, considerando che i consumi sono la componente principale del Pil? Ci siamo riusciti dopo la pandemia perché abbiamo puntato sugli investimenti, non solo quelli in edilizia legati ai Superbonus, ma anche quelli in macchinari. Per questo sarebbe importante semplificare le norme e rivedere le scadenze del piano Transizione 5.0 come ha chiesto in maniera chiara Ucimu, l’associazione dei costruttori italiani di macchine utensili, robot e automazione. Dunque è stato giusto e prudente prevedere nel Psb un crescita non roboante, considerando il contesto mondiale ed europeo e un’industria ferma.

(Lorenzo Torrisi)

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