Sono già stati commentati i dati definitivi sul Pil del quarto trimestre diffusi martedì dall’Istat lievemente migliori della stima iniziale, ma Marco Fortis, direttore della Fondazione Edison e docente di Economia industriale all’Università Cattolica di Milano, invita a guardarli insieme a quelli relativi al Pil del 2023 che l’Istituto nazionale di statistica ha rilasciato venerdì scorso. «Considerando, infatti, che c’è stata una revisione al rialzo della crescita complessiva sia per il 2023 (+0,9% rispetto al +0,7% stimato) che per il 2022 (+4% anziché +3,7%), possiamo notare che per il terzo anno consecutivo l’Italia è cresciuta più della Francia, della Germania e della Gran Bretagna. Tra i Paesi europei del G7, quindi, siamo quelli che stanno facendo meglio. Rispetto al quarto trimestre del 2019, l’ultimo pre-Covid, siamo arrivati al +4,2%: davanti a noi ci sono solamente Stati Uniti (+8,2%) e Canada (+4,5%). Per Francia, Germania e Gran Bretagna il dato è inferiore al +2%. La Spagna è un punto dietro di noi. Soltanto due-tre mesi fa si formulavano ipotesi catastrofiche sulla nostra economia, ma i dati le stanno smentendo e continuano a dire che l’Italia ha una resilienza in gran parte dovuta alla robustezza conquistata nei precedenti anni di riforme».
Questa robustezza ci poterà ad avere un 2024 altrettanto positivo?
Pur in un quadro di cui non possiamo lamentarci, visto quelle che succede fuori dai nostri confini, ci sono due elementi importanti da monitorare con attenzione, perché proprio negli ultimi giorni sono stati oggetto di segnali negativi.
Di quali segnali si tratta?
Il primo è relativo alla diminuzione dei consumi delle famiglie nell’ultimo trimestre, anche se c’è da dire che il 2023 si è chiuso con una crescita dell’1,2% che non era scontata. Sembra che nonostante l’ottima tenuta nei periodi di alta inflazione, si stia e esaurendo la vivacità della domanda delle famiglie. Se questo trend proseguisse non ci aiuterebbe in un anno che sembra avere tutti i semi di una forte crisi europea. Il secondo segnale è relativo alla messa a terra del Pnrr, perché dopo due mesi brillanti, a febbraio l’indice PMI delle costruzioni, per quel che riguarda l’edilizia non residenziale e l’ingegneria civile, ha rallentato pur restando in territorio positivo. Sarà dunque importante monitorare i dati relativi a Pnrr e consumi nelle prossime settimane per capire se potranno rappresentareuna solida base per il Pil del 2024.
Tra i dati diffusi dall’Istat venerdì scorso c’è anche quello di un deficit su Pil passato dal 5,3% al 7,2% a causa soprattutto degli effetti del Superbonus 110%. Cosa può fare la politica economica visti i margini fiscali che saranno sempre più risicati?
Bisognerà vedere a quanto ammonteranno realmente le minori entrate dello Stato. Non so quanto al momento questa revisione sul deficit/Pil rappresenti un problema: se, infatti, guardiamo alla dinamica del debito pubblico su Pil, i nuovi dati dell’Istat dicono che siamo passati dal 154,9% del 2020 al 137,3% dell’anno scorso. Penso che occorrerà capire se la crescita del Pil nominale sarà sufficiente a mitigare gli effetti del maggior disavanzo, ma non ritengo che avremo conti pubblici così disastrati. La priorità della politica economica dovrà essere l’attuazione del Pnrr, che può creare anche nuova occupazione, alimentando un clima positivo per la fiducia delle famiglie e i loro consumi. A mio avviso resta comunque un problema di incapacità comunicazionale da parte italiana.
Cosa intende dire?
L’Italia, al netto del costo degli interessi, ha ridotto il debito pubblico negli ultimi 28 anni di oltre 300 miliardi, grazie agli avanzi primari. È vero che nel 2023 registriamo in disavanzo primario, ma gli effetti del Superbonus non dureranno ancora a lungo, quindi penso riusciremo a fare meglio di quanto si pensi. Basti pensare che il Fondo monetario internazionale prevedeva che avremmo raggiunto un debito pubblico su Pil al 137% solamente nel 2028. La nostra capacità di interloquire con l’Europa, con le agenzie di rating, deve migliorare: bisogna spiegare che siamo un Paese più solido di altri nel post-Covid, che i conti pubblici sono sotto controllo, che il debito pubblico è per il 75% in mani italiane e non siamo un rischio per gli investitori stranieri.
Intanto il Governo ha varato il Decreto Pnrr che introduce il nuovo piano Transizione 5.0 per incentivare gli investimenti delle imprese. Cosa ne pensa?
Il Piano andrà studiato bene nei dettagli prima di poter esprimere un giudizio completo. Inviterei in ogni caso il Governo a non trascurare anche la componente degli investimenti in macchinari tradizionali perché molte Pmi non hanno avuto la possibilità dopo il 2016 – dato che in quel momento cercavano di evitare la chiusura e poi è arrivato il Covid – di effettuare gli investimenti previsti nel piano Industria 4.0. Credo sia importante accompagnare queste piccole imprese ad ammodernare i loro macchinari e le loro tecnologie, cosa che avrebbe anche un impatto in termini di risparmio energetico. Del resto è grazie alle imprese che si sono ammodernate che abbiamo ottenuto un risultato importante in termini di commercio internazionale.
A che cosa si riferisce?
Dal 2015 al 2023 l’export italiano in valore è cresciuto del 48% e il 75% delle nostre esportazioni è generato da circa 9.200 imprese, che hanno tra i 50 e i 1.999 addetti. Sono recentemente stati diffusi i dati aggiornati della Wto che dicono che nel 2023 l’export italiano si è confermato al quinto posto nel mondo con 667 miliardi di dollari, Davanti a noi ci sono Giappone (717), Germania (1.688), Usa (2.020) e Cina (3.380). Credo che anche questi dati sull’export dovrebbero essere un elemento importante per cercare di migliore la comunicazione italiana, perché ogni centesimo di spread che recuperiamo è un risparmio sugli interessi che dobbiamo pagare sul debito pubblico.
(Lorenzo Torrisi)
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