L’invecchiamento di ogni singolo individuo – il suo “vivere più a lungo” – è un indubbio segnale di progresso. È una conquista che deriva dal virtuoso incontro tra un contesto via via più salutare e un continuo miglioramento nello stile di vita delle persone. Un risultato che è tanto più apprezzabile quanto più accompagnato dall’opportunità di vivere in buone condizioni (sanitarie, affettive, relazionali), in altre parole: del poter “vivere meglio”. Tuttavia, quando si passa dalle considerazioni in merito all’invecchiamento biologico (individuale) a quella relative all’invecchiamento della popolazione (demografico), accanto alle luci del successo emergono le inevitabili ombre di alcune problematiche.
La questione di fondo è: come governare il progressivo aumento del peso relativo della componente anziana senza pregiudicarne la qualità della vita e senza compromettere i ruoli delle diverse componenti sociali, tradizionalmente assegnati rispettando gli equilibri nella struttura per età della popolazione?
Prendiamo il caso italiano – ricordando che il fenomeno è già oggi tipico di tutti i Paesi più sviluppati e lo sarà domani anche nel resto del Pianeta – e ragioniamo partendo dai dati statistici.
Attualmente ci sono in Italia 14,3 milioni di residenti con almeno 65 anni e tra di essi 850 mila hanno almeno 90 anni. Sono numeri che riflettono la dinamica di generazioni formatesi nel secolo scorso e che, alimentate già all’origine da un consistente flusso di nascite, hanno beneficiato di un progressivo accrescimento dei livelli di sopravvivenza. Basti pensare che mentre alle condizioni di cinquant’anni fa la probabilità di giungere a compiere 90 anni era il 5% e il 12%, rispettivamente per maschi e femmine, oggi i corrispondenti valori sono saliti al 25% e al 40%.
E se guardiamo al futuro, già nell’arco del prossimo ventennio la componente ultrasessantacinquenne si prevede possa raggiungere i 19 milioni (Istat 2024), di cui 1,3 milioni saranno in età 90 e oltre (quasi mezzo milione in più). Tutto ciò in un contesto di verosimile calo della popolazione totale: dagli attuali 59 milioni di residenti ai 56 milioni previsti al 1° gennaio 2044.
Stiamo dunque indirizzandoci verso una società nella quale si accresce la presenza della componente strutturalmente più fragile (la fragilità strutturale), ma entro cui vanno attenuandosi, al tempo stesso, i supporti per rispondere ai nuovi e maggiori bisogni emergenti. Una conferma il tal senso proviene dall’analisi della dinamica delle famiglie. I dati di scenario più recenti mostrano infatti un universo familiare numeroso e crescente – 26 milioni di unità destinate a raggiungere i 27 milioni nell’arco di un ventennio (Istat 2024) -, ma anche strutturalmente sempre più fragile (la fragilità familiare). Perché se, da un lato, nel prossimo ventennio aumenteranno di 600 mila unità le coppie senza figli e di oltre 100 mila i nuclei monogenitoriali con figli minori, dall’altro caleranno le coppie con figli e si accresceranno più di ogni altra le famiglie unipersonali (un milione e 430 mila unità in più). Una crescita, quest’ultima, che per quasi nove decimi (un milione e 243 mila unità) sarà ascrivibile a soggetti anziani con almeno 75 anni. Tra i quali ben 380 mila single in più saranno uomini; ovvero una componente che, ancor più delle donne, sembra destinata a esprimere un bisogno di quelle attenzioni di supporto che non possono prescindere dal contributo del Terzo settore nel quadro di un’auspicabile efficiente collaborazione tra pubblico e non profit.
Ciò vale, a maggior ragione, allorché si coglie nei dati statistici un ulteriore e importante avvertimento derivante dall’analisi dei futuri scenari: il fatto che la prospettiva di maggiori bisogni sul fronte del welfare andrà a combinarsi con quella di una minore disponibilità di risorse con cui intervenire.
La realistica previsione di un forte e progressivo calo della popolazione in età lavorativa (dai 36 milioni di 20-66enni al 1° gennaio 2023 ai 27 milioni alla stessa data del 2063) lascia infatti supporre un altrettanto consistente caduta della forza lavoro. Una variazione che, limitandoci al ventennio 2024-2043, è valutata – a parità di tassi di partecipazione – nell’ordine del 18%. Ciò significa che, se non si favorisce un accrescimento dei tassi di attività (facendo leva soprattutto sulla componente femminile e sui confini dell’età attiva) e in assenza di adeguati recuperi in termini di produttività e di occupazione (già ora con margini alquanto ridotti), il prodotto interno lordo (il Pil) pro capite si ridurrebbe in vent’anni di circa 6 mila euro (per l’appunto il 17,6% in meno rispetto a oggi).
Va da sé che anche con un approccio ottimistico, confidando nei progressi tecnologici e nel cambiamento di alcuni fattori (culturali e normativi) che tendono talvolta a penalizzare la potenzialità produttiva del nostro Paese, c’è da riflettere su come inventare, o semplicemente adattare, un welfare che sappia rispondere a un tale cambiamento demografico senza scadimenti nella qualità della vita degli italiani.
Partire dal territorio, dalla conoscenza dei bisogni con la consapevolezza dei pregi (e dei limiti) degli strumenti disponibili è già un’importante base di avvio. Se questo poi avviene valorizzando risorse e strutture locali, con un’adeguata interazione con la Pubblica amministrazione che valga a potenziarne efficienza ed efficacia, si può ritenere che si stiano tracciando nuove valide linee d’azione.
Siamo di fronte a un paziente, il welfare, per il quale la diagnosi è chiara, ma la terapia è tuttora in corso validazione. Accelerare le analisi e intervenire calibrando l’azione in funzione dei contesti entro cui si esercita, diventano prescrizioni irrinunciabili e coerenti in una logica di doverosa ricerca del bene comune.
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