“Si sta rapidamente avvicinando il momento di un’inversione di rotta nell’orientamento della politica monetaria”: Fabio Panetta al suo esordio da Governatore della Banca d’Italia al Forex, pur con tutta la cautela possibile, ha lanciato ieri un messaggio di speranza. Ce n’è bisogno perché il rientro dall’inflazione più rapido del previsto (dal 4,3% al 2,8% in cinque mesi) rischia di essere accompagnato da un rallentamento economico anch’esso molto veloce.



Il Governatore è nell’insieme ottimista e pensa che possa essere maturo anche un recupero dei salari. Ma ha sottolineato che la debolezza dell’economia europea si sta estendendo all’Italia. “Per intraprendere un sentiero di crescita sostenuta – ha detto – dobbiamo agire lungo due direzioni: va data certezza agli investitori su una traiettoria discendente del debito pubblico; la riduzione dei premi per il rischio che ne potrebbe derivare renderebbe meno arduo il percorso. Vanno stimolati gli investimenti in grado di accrescere l’innovazione e la produttività“, mentre nell’immediato “occorre trarre il massimo beneficio dall’attuazione delle riforme e degli investimenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che possono innalzare la nostra crescita potenziale e rendere meno arduo il necessario riequilibrio dei conti pubblici”.



Le difficoltà dell’industria manifatturiera sono emerse già chiaramente lo scorso anno. La produzione industriale è diminuita del 2,1% nonostante un piccolo rimbalzo a dicembre. La domanda interna è debole: secondo Prometeia, il consumo di beni è sceso di un punto percentuale nei primi nove mesi del 2023, mentre la domanda estera è in cado di tre punti in tutto il mondo. L’Italia ha salvato finora le sue esportazioni e ha una bilancia corrente in leggero attivo (mezzo punto di Pil), ma non è sufficiente a fare da locomotiva.

Sì, certo, l’agricoltura ha i suoi malesseri che provocano seri grattacapi al Governo e al Paese (chi paga i sostegni e le riduzioni fiscali?), però il vero grande problema di quest’anno è l’industria a cominciare dall’auto con l’intera sua filiera. La manifattura in fondo genera il 25% del prodotto lordo, il lavoro dei campi, pur con tutta la sua importanza, appena due punti percentuali. La trasformazione delle quattro E (energetica, elettrica, economica, ecologica) finora è rimasta confinata nelle fonti energetiche e ha avuto un’accelerazione con la crisi del gas provocata dalla reazione all’invasione russa dell’Ucraina. È stato un colpo duro, un trauma immediato, ma ha prodotto una forte reazione e un disincaglio prima del previsto dal gas russo. Adesso il cambiamento sta arrivando al cuore dell’industria e impone una trasformazione radicale. L’ultimo esempio viene dall’impatto della direttiva Ue sui fornitori che produrrà un aggravio di costi ovunque, e molte difficoltà in più nel sistema manifatturiero italiano basato su piccole, mini, spesso micro aziende. Ma senza dubbio la ricaduta maggiore lo si sta già vedendo sull’automotive.



Stellantis ha le sue colpe, tuttavia la crisi di Mirafiori è la conseguenza di due fattori strutturali. Primo, in Italia ci sono troppi impianti e troppa poca produzione, con gli stabilimenti attuali si potrebbe costruire un milione e mezzo di veicoli, oggi si arriva a 700 mila, anche se si realizzasse l’obiettivo del Governo, cioè produrre un milione di auto e veicoli commerciali, ci sarebbe un sovradimensionamento pari a un terzo. Secondo, il divario di costi tra auto europee e cinesi (non solo quelle elettriche) è del 40%, nessuno è in grado di colmarlo nemmeno con gli aiuti di Stato, e si cerca la scorciatoia per sopravvivere: ridurre i costi a cominciare da quelli del lavoro e chiudere gli stabilimenti di troppo. Carlos Tavares non è simpatico, ma in fondo ha detto che il re è nudo.

Se la Bce non si sbriga a ridurre i tassi d’interesse, sono guai. Un banchiere italiano che opera tra la Svizzera e Londra spiega che chi vuole investire in Italia, anche comprando titoli di debito pubblico, non guarda tanto all’ammontare del debito, nonostante viaggi verso i tremila miliardi di euro, ma soprattutto alla sua sostenibilità, cioè alla capacità dell’Italia di ripagarlo. Gli interessi non sono lontani a cento miliardi di euro l’anno, la durata media dei titoli di stato è sette anni, il tasso su tutto il debito è salito lo scorso anno al 3%, l’inflazione ne ha ridotto l’impatto, ma la disinflazione lo renderà più caro a meno che non scendano i tassi internazionali. Ogni anno bisogna collocare titoli per 400 miliardi di euro. L’Italia è cresciuta molto nel 2022 e ha spinto il Pil anche nel 2023. Un incremento dell’1% in termini reali più due punti d’inflazione vuol dire che verranno prodotti poco più di 60 miliardi, se i prezzi resteranno al 3% saranno circa 90 miliardi, assorbiti dagli interessi. Cosa resta per ridurre le imposte, migliorare i servizi, pagare le nuove pensioni? Sono calcoli approssimativi, ma il debito tornerà ad aumentare e sarà più caro mentre la crescita langue e le tensioni sociali, a cominciare dagli agricoltori, spingono il Governo a spendere per raffreddare la tensione. Ciò finirà per peggiorare il deficit pubblico che è ancora al 5% del Pil.

Stiamo facendo i gufi, proprio mentre il Governo tira sospironi di sollievo perché, comunque, gli italiani hanno evitato finora una recessione, a differenza da quel che sta accadendo ai tedeschi (ma anche agli austriaci e agli olandesi)? Chi la pensa così dovrebbe riflettere sul fatto che la maggior parte delle esportazioni che ci hanno tenuto a galla sono dirette proprio vero la Germania. La politica industriale della quale tanto si parla, la politica fiscale e quella economica in generale dovrebbero partire da qui.

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