I dati sul Pil dell’Eurozona diffusi martedì non sorprendono Gustavo Piga. «E se è vero – aggiunge il professore di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata, riferendosi alla stima sulla performance dell’economia italiana nel 2023 – che un +0,7% è meglio dell’impressionante, direi quasi deprimente +0,5%, prova provata della dominanza del pessimismo nell’area dell’euro, con una Germania in recessione a -0,3%, non dobbiamo dimenticare che è frutto anche del supporto del Pnrr, che avrebbe dovuto dare un contributo molto più alto viste le cifre in gioco».



Come mai, a suo avviso, questo contributo più alto non si è concretizzato?

Da un lato, perché il Pnrr non è stato messo sufficientemente a terra, anche a ragione del mancato investimento sul capitale umano della Pubblica amministrazione, dall’altro perché lo stesso Piano contiene la clausola implicita di portare avanti una politica fiscale restrittiva per continuare a ricevere i fondi. Si tratta, quindi, di un duplice problema creato sia dall’Italia che dall’Europa.



Prima ha parlato di un’Eurozona dominata dal pessimismo. Eppure c’è una Spagna che, secondo le stime, è cresciuta del 2,5% nel 2023.

Non dobbiamo farci ingannare da questo dato, perché la Spagna ora sembra il motore d’Europa, ma in realtà ha recuperato poco, meno dell’Italia, rispetto al pre-Covid. Tutta l’economia europea ha avuto un rimbalzo piuttosto limitato dopo la pandemia: lo si vede facilmente confrontando la sua performance non con quella cinese, che ovviamente continua a essere prorompente, sopra il 5% nonostante le difficoltà, ma con quella americana.



Cosa ci dice questo confronto?

Le stime dicono che gli Stati Uniti hanno chiuso il 2023 al +3,1%, l’Europa si ferma al +0,5%. E certo non possiamo attribuire questa differenza a una politica monetaria americana più espansiva della nostra. Tutto viene spiegato dalla stance di politica fiscale. Sono ormai anni che il deficit/Pil degli Stati Uniti è sostanzialmente il doppio di quello europeo, Biden ha già annunciato che fino al 2030 si attesterà intorno al 6% e non credo che la musica cambierà in caso non venisse rieletto alla Casa Bianca. Questo influisce sulle aspettative, così importanti per gli operatori economici, trasmette ottimismo, certezze sul fatto che che la domanda interna negli Stati Uniti non sarà mai un problema.

Mentre in Europa rischia di esserlo…

In Europa, per qualche motivo sadomasochistico, si è deciso di comunicare a tutti gli operatori economici, tramite il nuovo Patto di stabilità e crescita, che in un momento incerto come questo, contraddistinto anche da problemi energetici maggiori rispetto a quelli degli Stati Uniti, la politica fiscale va indirizzata per ottenere al massimo un deficit/Pil all’1,5%, con manovre fortemente restrittive. Non c’è poi da stupirsi che l’Istat debba constatare che vi è stato un contributo negativo della domanda interna al Pil: manca la domanda creata non solo dalla spesa pubblica, ma anche da quella privata, depressa sia in termini di investimenti che di consumi perché non ci sono certezze, la gente ha paura del futuro. E questa cappa che la politica fiscale ha introdotto sull’Europa la stiamo continuando a pagare. I dati di Eurostat e le previsioni del Fmi non fanno altro che confermarlo.

Tutto questo deficit degli Usa, a livelli inediti per i periodi non bellici, creerà però un problema di debito pubblico enorme a Washington…

È una questione di priorità. Giustamente, per Washington in questo momento geopoliticamente così delicato, la priorità è preservare la democrazia. Ed è ovvio che Biden sia preoccupato di perdere le elezioni con tutte le implicazioni che questo avrebbe per gli equilibri democratici interni e per una geopolitica che egli ritiene verrebbe messa ampiamente a rischio se Trump vincesse le presidenziali. Dunque, si è coscienti che verranno momenti in cui bisognerà riportare i conti pubblici sotto controllo, quando la situazione politica lo consentirà, ma in questo momento, anche a costo di correre dei rischi, è decisamente preferibile mettere in sicurezza la democrazia. Certo non va dimenticato che gli Stati Uniti, data la loro coesione, il loro potere geopolitico e il ruolo del dollaro, possono permettersi di stampare cartamoneta e di avere sempre la politica monetaria a supporto dell’economia.

Cosa che l’Europa non può permettersi.

Sì, anche perché impegnata in beghe interne di condominio. L’Europa sembra incapace di comprendere le sfide geopolitiche e i rischi per la democrazia sul suo territorio. Si occupa, invece, di irrilevanti questioni contabilistiche sull’avanzo primario o sul deficit, che, come ben sappiamo, non sono in grado di abbattere il debito pubblico su Pil, visto che deprimono la crescita. Purtroppo, senza una buona politica economica non si può essere forti anche geopoliticamente e si è costretti ad andare al traino di altri.

Cosa si può fare in Europa per limitare i danni? La Bce deve tagliare i tassi?

Mentre si chiede una politica fiscale restrittiva, occorrerebbe una politica monetaria più espansiva. Invece, nell’eurozona essa è “mutata”, messa in muto. Ci sono evidenze per cui la Bce non abbasserà i tassi finché non avrà avuto certezze sull’esito dei rinnovi contrattuali che monitora e sulle scelte conseguenti delle imprese sugli eventuali aumenti salariali tra una responsabile riduzione dei margini e un loro trasferimento sui prezzi dei prodotti. Pertanto fino a giugno non se ne potrà parlare. È ovvio, quindi, che tutto si gioca sulla politica fiscale, che resta bloccata da permanenti reciproci sospetti tra sud e nord Europa.

Come si può sbloccare la politica fiscale?

L’unico modo per farlo è passare per l’Italia, che è il centro del problema. Se il nostro Paese riuscisse a mettere sotto controllo la qualità della sua spesa pubblica, non tagliandola, ma riqualificandola con una seria spending review, tutti i timori europei verrebbero cancellati e si potrebbe finalmente parlare di politica fiscale senza rischiare un forte aumento del debito pubblico. Tutto parte da noi. È una fase difficile e complessa, la tenuta stessa dell’Ue è in discussione, dato che la leader di Alternative fur Deutschland ha detto di volere un referendum sulla permanenza della Germania nell’Unione. Per quanto sia improbabile un’uscita di Berlino dall’Ue, abbiamo visto che la Brexit c’è stata. Dobbiamo prepararci fin d’ora per evitare questa frantumazione e l’unico modo per farlo è il dialogo e la vicendevole rassicurazione tra i Paesi membri. L’Italia può fare un passo importante in questa direzione mettendo a posto una situazione ben nota sulla qualità della sua spesa pubblica.

(Lorenzo Torrisi)

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