Le difficoltà dell’attività manifatturiera che si erano manifestate già durante l’estate si sono trasformate in una vera e propria emergenza. La revisione al ribasso della crescita (+0,5% quest’anno dice l’Istat e non l’un per cento previsto dal Governo), si spiega proprio con il contributo negativo dell’industria che nel terzo trimestre è scesa dello 0,7%. Non è un colpo di coda dell’autunno: sono ormai venti mesi che la produzione non tira, tra gennaio e settembre s’è registrata una vera e propria caduta pari al 3,4%.
È la conseguenza diretta di quel che sta accadendo fuori dai confini, in Germania e in Francia innanzitutto, ma anche in Cina alle prese con una deflazione interna e negli Stati Uniti alla vigilia di una nuova Amministrazione Trump che ha annunciato un aumento delle tariffe dal 10% al 20% mettendo sotto tiro l’Unione europea. I mercati prevalenti per l’export italiano sono proprio Germania e Francia in quantità, Cina e Usa per dinamismo. Circa metà del prodotto industriale italiano è rivolto all’estero, sono in media circa 600 miliardi di euro l’anno. Ma nei primi nove mesi di questo 2024 si è registrata una riduzione di oltre tre miliardi.
La domanda interna è rimasta positiva, però non ha compensato l’inaridirsi di quella estera e ha spinto le imprese a un atteggiamento prudente, forse persino troppo. Gli investimenti fissi lordi che l’anno scorso avevano fatto un balzo dell’8,3%, finora hanno segnato un +0,4%, ma l’Istat prevede che l’anno prossimo saranno a livello zero. Nonostante il Pnrr che finora non ha dato quel contributo al prodotto lordo annunciato con grandi squilli di tromba.
Se non si investe non si cresce. L’euforia per il dinamismo economico italiano negli ultimi due anni forse è stata eccessiva, certamente è stata acritica, ma ogni entusiasmo ormai si è spento tra chi fa impresa ed è giunta l’ora che anche chi fa politica e chi governa apra gli occhi sulla realtà.
“Si torna a ragionare di crescita. Il nodo di come sostenere il progresso della società italiana non può più essere rinviato”, ha scritto il rapporto Censis nelle sue considerazioni generali. E ancora: “È alto il rischio che, dopo la vigorosa ripresa post-pandemia, peraltro eccezionalmente sostenuta dall’indebitamento pubblico, le prospettive di crescita dell’Italia si vadano rapidamente annuvolando”.
La manovra di bilancio che si sta discutendo in modo tanto animato non sembra tener conto di questo cambio di scenario e di questa emergenza industriale. È rivolta a sostenere i consumi non gli investimenti. È vero che la coperta è corta, ma viene tirata solo da una parte. La spinta propulsiva degli incentivi come Industria 4.0 si è esaurita. Il nuovo ciclo chiamato Transizione 5.0 ha a disposizione 12,7 miliardi di euro in due anni, non sembra davvero sufficiente a invertire il trend.
La crisi industriale è più drammatica nell’auto, compreso naturalmente l’indotto, ma il tessile abbigliamento uno dei pilastri del made in Italy sta andando persino peggio: ha perso il 10,8% tra gennaio e settembre, più del 9,2% ceduto dai mezzi di trasporto. Vanno male i macchinari, prima voce dell’export, gli investimenti si sono fermati persino nelle telecomunicazioni. L’effetto sarà consistente anche sul bilancio pubblico, basti pensare a quanto potranno costare gli ammortizzatori sociali, dai prepensionamenti alla cassa integrazione straordinaria.
Intanto si comincia a fare qualche conto sull’impatto della stagnazione tedesca e della confusione francese. Dalla Germania arriva la riduzione delle esportazioni italiane (e non solo nella meccanica). È presto per capire cosa accadrà in Francia, ma la stretta di bilancio avrà un effetto negativo sulla domanda interna. L’Osservatorio francese della congiuntura stima che potrà dimezzare la crescita nel 2025 e sopprimere 130 mila posti di lavoro. Quest’anno si prevede un +1,1%, ma la frenata è già cominciata: nel terzo trimestre il Pil è aumentato dello 0,4%, nel quarto si prevede che scenda dello 0,1%.
La politica economica italiana riuscirà ad ammortizzare l’onda d’urto che viene da oltralpe? L’Istat ha simulato gli effetti della Legge di bilancio sulla congiuntura. Ci sarebbe un impatto di poco inferiore a 2 decimi di punto nel 2025 e nel 2026, e di poco superiore ai due decimi nel 2027. Un impatto non negativo, ma modesto.
La gran parte degli interventi di politica fiscale sono rivolti a proteggere le disponibilità di lavoratori, famiglie e redditi bassi, quindi vanno a sostenere i consumi esercitando spinte sui prezzi interni, con un aumento delle importazioni e un impatto negativo sul volume dei consumi pubblici; gli investimenti privati reagirebbero solo in modo limitato e con ritardo sia all’aumento della domanda sia alla riduzione dei tassi reali di interesse.
La Legge di bilancio è partita da un errore iniziale: è stata sopravalutata la crescita. Gli spazi di manovra sono limitati dal corsetto europeo: procedura d’infrazione e nuove regole del Patto di stabilità. Ma leggendo le simulazioni dell’Istat appare chiaro un altro abbaglio di fondo: sostenere i consumi e non gli investimenti sembra un vantaggio politico nel breve periodo che avrà un costo ben maggiore a partire già dal prossimo anno. Ci sarà bisogno non solo di una correzione, ma di una svolta in corso d’opera. Varata la legge bisogna già pensare a come correggerla.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.