Con le tensioni nel Mar Rosso e il rischio che le merci non transitino più dal Canale di Suez, l’Europa sta riscoprendo le proprie debolezze economiche, in un momento tutt’altro che roseo, visto che la sua principale economia, la Germania, secondo la stima preliminare dell’ufficio federale di statistica Destatis, dovrebbe chiudere il 2023 con un Pil a -0,3%. E anche per questo il Governo Scholz non sembra godere di buona salute, viste sia le proteste degli agricoltori che i sondaggi che premiano l’estrema destra di AfD e la nuova formazione Bsw, nata da una costola dell’estrema sinistra. Gustavo Piga, professore di economia politica all’Università di Roma Tor Vergata, non ha dubbi: “Credo che siamo arrivati a una fase decisiva della storia dell’Ue e forse dell’Occidente. Siamo tutti in bilico tra democrazia e populismo”.



Diventerà allora cruciale l’appuntamento delle elezioni europee.

No. Paradossalmente, il che la dice lunga sul potere relativo all’interno dell’Occidente dell’Ue, lo snodo chiave è rappresentato dalle presidenziali americane, che potrebbero di fatto preparare il terreno a sommovimenti importantissimi per partiti come Rassemblement National e AfD. I quali potrebbero anche trarre forza da un ulteriore shock esogeno sull’economia come quello collegato alle tensioni nel Mar Rosso. In momenti chiave come questo la parola d’ordine non può certamente essere resilienza, che presume una certa accettazione passiva delle difficoltà. Bisogna, invece, cercare di prevenire le crisi, con un’assunzione di responsabilità e leadership. È evidente che non si può delegare tutto questo a una Davos qualsiasi.



Cosa si può fare allora?

L’ultima volta che l’Occidente e le sue democrazie sono state così vicine a una fine dirompente, con la Seconda guerra mondiale, si sono potute salvare perché c’è stato qualcuno che ha avuto il coraggio di muoversi in anticipo: Roosevelt e Churchill diedero vita a un piano di investimenti, in quel caso bellici, che permise di non soccombere al nazismo. Credo che siamo in un momento di simile minaccia per le democrazie, non per un’invasione bellica, ma per lo la crescente forza delle forme di populismo che si alimentano di crisi economiche e disuguaglianze crescenti. L’unica medicina che può prevenire un disastro è la politica economica.



Oggi, come 90 anni fa, è l’Europa a essere particolarmente in difficoltà.

Se nel 2013 i Paesi del G7 producevano il 43% della ricchezza mondiale, dieci anni dopo sono scesi al 30%. Ma nello stesso arco di tempo l’Europa è passata dal produrre quanto il 91% della produzione americana al 65%. È ovvio, quindi, che il vero malato occidentale è l’Ue. Se poi guardiamo agli ultimi 5 anni, l’Eurozona ha avuto un ritmo di crescita dimezzato rispetto agli Usa. Penso che abbia fatto bene Ursula von der Leyen a incaricare Mario Draghi di identificare le cause di questo declino e a immaginare come potervi far fronte.

Le cause del declino europeo si possono facilmente individuare, ma quali soluzioni possono essere messe in campo?

Sono i nodi relativi a crescita economica e disuguaglianze che portano al rafforzamento dei populismi. Occorrono, quindi, strumenti in grado di affrontare entrambi. Non può esserlo la Global minimum tax, che si prevede possa generare un gettito di 12-13 miliardi. Posto che la politica monetaria ha svolto un compito non così malvagio nel corsi degli anni, restano due strumenti principi.

Quali?

La politica industriale e quella fiscale. La prima, tuttavia, per la questione degli aiuti di Stato, si mischia facilmente con la seconda. Se poi guardiamo meglio alla diversa performance tra Usa e Ue, non è un caso che oltreoceano crescano il doppio di noi visto che possono contare su un deficit/Pil doppio per fare investimenti pubblici. È evidente che gli Stati Uniti vedono più lontano e capiscono che quello è uno strumento importante, ma l’Europa non riesce a seguirli. Lo dimostra anche la recente decisione sul Patto di stabilità che ci accompagnerà nei prossimi anni.

Da che punto di vista lo testimonia?

Le regole individuate non permettono all’Europa di far fronte, con gli investimenti pubblici, alla doppia sfida riguardante la crescita economica e le disuguaglianze, che non si può certo vincere con una patrimoniale. Gli investimenti pubblici finanziati in deficit non solo si ripagano, visto che aiutano a stabilizzare il rapporto debito/Pil, ma hanno anche la capacità, se ben fatti, di generare crescita e quindi risorse per gli ospedali, le scuole e tutti quei servizi che fanno sentire chi è più in difficoltà protetto, rendendo, quindi, meno probabile il trionfo dei populismi. L’unico modo con cui la politica fiscale può prevenire le crisi e pensare al futuro è tramite gli investimenti pubblici, e gli Stati Uniti lo sanno bene.

Draghi con il suo rapporto sulla competitività dell’Ue indicherà come poter seguire gli Stati Uniti su questa strada?

Sappiamo con certezza che ci sarà un richiamo a diventare una sorta di Stati Uniti d’Europa, ad assumere una politica di difesa comune, a fare in modo che vi sia un ruolo anti-ciclico nella politica fiscale a Bruxelles. Il problema è che la grande disunione che si è vista nella trattativa per il nuovo Patto di stabilità lascia intendere che siamo ancora lontani da un obiettivo come questo: si immagini se la Germania, in un momento di forte ascesa dell’AfD come quello attuale, si può permettere di demandare la sua politica fiscale a Bruxelles. Bisognerà, quindi, che il rapporto di Draghi abbia una visione non solo di lungo, ma anche di medio periodo. In questo senso è importante che l’Europa trovi una forma di politica fiscale che sappia finanziare gli investimenti senza che siano tutti centralizzati tramite le risorse europee. Io ritengo che la questione giri tutta intorno all’Italia.

In che senso?

L’Italia ha tenuto bloccato fino all’ultimo momento l’accordo sul nuovo Patto di stabilità non solo perché aveva e ha più bisogno di parametri meno stringenti, ma anche perché è il Paese che desta più sospetti nel resto dell’Ue. Se fossimo capaci di rassicurare i nostri partner, terrorizzati dalla nostra incapacità di spendere confermata dagli ultimi dati dell’Upb sul Pnrr, saremmo probabilmente capaci di sbloccare tutto il sistema europeo e far partire il circolo virtuoso. Purtroppo il non essere stati capaci di portare al tavolo europeo una minima proposta di riforma della qualità della spesa pubblica ha reso la nostra posizione negoziale insostenibile. Oggi abbiamo, quindi, un Patto che danneggia non solo l’Italia, ma tutta Europa. È evidente che siamo il centro del problema, ma anche della soluzione. Il tempo, però, stringe. Sarebbe ora che una leadership alla Roosevelt emergesse rapidamente non per investire in vista di una guerra, ma per garantire progresso alle future generazioni.

Il tempo stringe, ma, considerando che, come diceva all’inizio, lo snodo chiave non saranno le europee di giugno, ma le presidenziali Usa di novembre, il 2024 rischia a questo punto di essere un anno perduto per l’Europa?

Purtroppo sì. E dire semplicemente, come ho sentito fare da alcuni leader europei, che Trump è il male e ci dobbiamo preoccupare non aiuta a risolvere il problema. Bisogna pensare alla nostra casa e a renderla forte, resistente, capace di prevenire le crisi. Non mi sembra che i leader europei si preoccupino di questo. Speriamo almeno che il rapporto di Draghi abbia la visione di medio periodo di cui ho parlato poc’anzi e abbia l’interesse che merita, visto il problema che intende affrontare.

(Lorenzo Torrisi)

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