Magari sarà solo un vuoto d’aria, ma una crescita zero nel terzo trimestre rispetto al trimestre precedente ha sorpreso e allarmato tutti. Non se l’aspettavano nemmeno la Banca d’Italia e la Confindustria, anche se entrambi gli uffici studi avevano segnalato da tempo la frenata dell’economia. Non se l’aspettava il Governo ancora intento a sostenere che l’Italia andava meglio degli altri Paesi. Se prima il problema era salvare il bilancio pubblico dagli appetiti e dalla pretese dei partiti, delle lobby, dei gruppi d’interesse, adesso l’obiettivo principale diventa evitare che la stagnazione si trasformi in recessione. Che cosa si può fare? Quali strumenti ha in mano il Governo? È possibile che arrivino degli aiuti esterni?
L’export che aveva fatto da locomotiva mostra segni di stanchezza e può diventare un punto debole se gli Stati Uniti che erano stati un importante mercato per i prodotti italiani si chiuderanno in una spirale protezionistica. Sulla Cina è meglio non contare troppo, non si capisce infatti come vada davvero l’economia: segnali di difficoltà e impedimenti domestici sono molti, ma occorre penetrare la fitta cortina di propaganda eretta dal regime.
Ci sono alcuni dati incoraggianti nell’Eurolandia. La Germania mostra segni di recupero sia pur con un modesto 0,2% rispetto allo stesso periodo del 2023; la Francia è a più 0,4% in linea con l’Italia; la Spagna batte tutti con una crescita dello 0,8%, tuttavia non fa da traino all’economia italiana. Ma il contributo maggiore dovrebbe arrivare da un coraggioso allentamento della politica monetaria. Su questo tasto batte la Banca d’Italia.
Anche la domanda interna vacilla. I bonus l’hanno tenuta su, compensando in parte l’effetto negativo dell’inflazione sul potere d’acquisto e sui redditi delle famiglie. Adesso se ne sentono le conseguenze. I prezzi aumentano meno della media europea e questo è naturalmente un bene, ma è anch’esso un segnale di debolezza della domanda, mentre si sconta il trascinamento inflazionistico degli anni scorsi. I consumi sono frenati anche da un amento dei risparmi, alla ricerca di impieghi sicuri in buona parte anche all’estero. I risparmi sono arrivati a 5 mila 732 miliardi di euro (gli ultimi dati del primo trimestre) con un incremento di oltre mille miliardi se confrontato con il 2019.
Se guardiamo agli investimenti privati, il Centro studi della Confindustria mostra che quest’anno sono fermi e tornano agli stessi livelli addirittura del 2008. Dal lato dell’offerta un freno alla crescita sempre più pericoloso viene dalla mancanza di lavoratori. Tra 5 anni la domanda supererà l’offerta di lavoro di un ulteriore milione 300 mila unità. Secondo le proiezioni demografiche, in cinque anni nel migliore dei casi avremo 730 mila lavoratori in più, ce ne vogliono altri 610 mila che dovranno per forza di cose arrivare da fuori confine. Anche considerando gli ingressi previsti dall’ultimo decreto flussi, c’è uno squilibrio che potrebbe essere colmato, sostiene il Centro studi della Confindustria, ampliando gli ingressi di circa 120 mila unità l’anno, scrive il rapporto; quindi non più 151 mila come previsto fino al 2025, ma circa 270 mila.
I posti di lavoro due mesi fa si sono ridotti di 63 mila, portando il tasso di occupazione al 62,1% (a luglio aveva segnato il record del 6,5%). Il tasso di disoccupazione resta invariato al 6,1%, confermandosi ai livelli più bassi dal 2007, mentre il tasso di inattività sale al 33,7%, tornando alla quota di febbraio 2023. nell’ultimo anno la loro crescita ha superato quella degli occupati: 337 mila contro 301 mila.
Insomma, sono venute alle luce le contraddizioni che finora erano rimaste sotto pelle. Le imprese italiane hanno migliorato la loro produttività con una forte rincorsa dopo la fine della pandemia, ma sembrano aver dato il massimo. Si moltiplicano le difficoltà in quasi tutti i settori con una crisi profonda nell’auto e una caduta preoccupante anche nell’abbigliamento.
Con il bilancio pubblico bloccato per ridurre il disavanzo e uscire dalla procedura d’infrazione e un flusso delle entrate tributarie in contrazione a causa della frenata economica, il Governo non ha spazi di manovra a meno di non ricorrere a misure straordinarie come un’imposta patrimoniale (la scorciatoia sarebbe come sempre tassare la casa) che avrebbero ripercussioni pesanti, politiche e non solo socio-economiche. Una strada che il Governo non vuole davvero percorrere.
Tutto grava, dunque, sul Pnrr che procede a passo di lumaca. Finora non si è visto nessun effetto significativo sul prodotto lordo, il contributo alla crescita è stato minimo: 0,2% nel 2021, ancor meno (appena 0,1%) nel 2022, 0,4% nel 2023. Il rischio che si traduca in un fallimento è sempre dietro l’angolo, ma non è il momento di fasciarsi la testa. Bisogna, questo sì, accelerare. Resta da spendere quasi tre quarti dei 194 miliardi disponibili, ne sono stati impegnati circa la metà, quindi l’anno prossimo bisognerà fare una vera corsa a ostacoli per centrare gli obiettivi nel 2026. È il compito fondamentale sul quale dovrà concentrarsi il Governo, senza sprecare risorse ed energie inseguendo questa o quella categoria, mentre nel frattempo dovrà trovare i fondi per tamponare le crisi più gravi che colpiscono l’industria manifatturiera.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.