È difficile scegliere, in una situazione come quella italiana, se piangere o sorridere amaramente. Abbiamo di fronte una serie di scadenze importanti, forse decisive per rilanciare lo sviluppo di questo Paese. Pur con i confronti necessari, come avviene in ogni democrazia, dobbiamo rispettare i tempi per ottenere i finanziamenti europei collegati al cosiddetto Pnrr, cioè al piano nazionale di ripresa e resilienza, perché la cosiddetta seconda repubblica, anche attraverso quattro “governi tecnici” (specialità tutta italiana) è scivolata tra i Paesi in difficoltà, anche se è stata una protagonista tra i fondatori dell’Unione Europea e resta ancora tra i primi dieci Paesi del mondo per ricchezza.



Non siamo più come negli anni Ottanta la quarta potenza economica e industriale. Scivolando all’indietro stiamo soffrendo per la crescita stentata negli ultimi venti anni, per un immobilismo deleterio che frena ogni riforma e di conseguenza per le disuguaglianze sociali che sono sempre più acute, per una de-industrializzazione preoccupante, per un allargamento dell’area della povertà che può diventare una autentica “bomba sociale”.



Quando sosteniamo queste cose non lo facciamo per collocarci nell’angolo del pessimismo, ma solo in quello del realismo che, in base ai dati e ai numeri, ci spinge a riguadagnare un futuro positivo per l’Italia.

Ora ripetiamo per un attimo, guardando alla politica italiana di tutti questi anni, perché non sappiamo se piangere o sorridere amaramente.

Pur nella differenza delle posizioni, che sono indispensabili in una democrazia, sia una maggioranza che un’opposizione parlamentare hanno l’esigenza, devono sentire la necessità di una coesione nazionale, di un dibattito costruttivo sui problemi più urgenti per una svolta di rilancio e di ripresa. Una democrazia non manca di visioni, spesso neppure di alcune ideologie di riferimento contrapposte, ma il buon senso, il sale del dibattito democratico, è la prevalenza della risoluzione laica dei problemi, della distinzione delle posizioni, ma non il contrasto radicale e ideologico profondo che sconfina nel “muro contro muro”, nella squalifica sistematica dell’avversario.



È vero che la democrazia è in crisi, spesse volte sembra traballare in diversi Paesi dell’Occidente, ma i contrasti italiani sono talmente acuti e il dibattito politico è talmente rissoso che si può arrivare a definire tranquillamente l’Italia come “il Paese della discordia”.

Ci sarà pure nel nostro Dna nazionale politico la divisione tra guelfi e ghibellini, e quelle più ampie che hanno caratterizzato la nostra storia, ma gli ultimi contrasti sulla storia del Paese e altri fatti avvenuti sono veramente disarmanti.

Il dibattito su fascismo e antifascismo, sul 25 aprile, è diventato ormai una farsa storica, dove la maggioranza di destra-centro, con il presidente del Senato in testa, spara cavolate incredibili, ma nello stesso tempo da sinistra le risposte che arrivano sono argomentate male, rivelano un pressappochismo surreale e nell’opinione pubblica italiana, che ha poca memoria storica, provoca soprattutto indifferenza.

Se La Russa e Lollobrigida, magari anche la Meloni, straparlano su via Rasella e la “sostituzione etnica”, l’opposizione cerchi di onorare, una volta per tutte, anche la lapide di Alfredo Pizzoni, capo ed eroe della Resistenza, dimenticato completamente e sconosciuto alla stragrande maggioranza di questo Paese; non fischino la Brigata ebraica come hanno fatto per tanti anni; ricordino perché un uomo della Resistenza come Ferruccio Parri lasciò l’Anpi nel 1954.

Forse bisognerebbe ricordare una frase di Renzo De Felice che mette i brividi alla schiena: “Uno dei maggiori danni del fascismo è aver lasciato in eredità una mentalità fascista ai non fascisti e alle generazioni successive”. E forse non si dovrebbe dimenticare quello che ha scritto Giampaolo Pansa nel suo trittico: Il sangue dei vinti, Sconosciuto 1945, La grande bugia.

Si potrebbe trovare certamente un omaggio comune al 25 aprile con un bell’accordo: Giorgia Meloni ed Elly Schlein, depongano insieme un fiore davanti alla lapide di Pizzoni a Milano e poi ricomincino a litigare e a confrontare con astio le loro idee. Ma quel riconoscimento al capo del Cln (Comitato di liberazione nazionale) avrebbe un vero significato di omaggio a tutti i partigiani, che, pur avendo idee politiche differenti, avevano in comune la liberazione dell’Italia.

Possiamo stare sicuri che questo non capiterà, anche per mancanza di conoscenza della storia e del luogo dove c’è la lapide di un uomo che condusse la Resistenza senza partito, aggiustando tra l’altro (vedi i patti di Roma del novembre 1944) alcuni rimproveri degli Alleati al movimento della Resistenza che spesso si lamentava per aiuti e strategia militare.

Ecco, di fronte a una realtà economica, sociale e politica, problematica di questo tipo per l’Italia, governo e opposizione straparlano di storia con una memoria e una competenza che dovrebbe espellerli da qualsiasi conduzione politica nazionale. Ma chi può governare o fare l’opposizione senza neppure conoscere la storia documentata e vissuta da migliaia di persone?

Non c’è solo questo confuso dibattito politico ricco di strafalcioni, in questo periodo. Proprio adesso, mentre è in corso una guerra nel centro dell’Europa dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di quel “pacifista” di Vladimir Putin (si è sentito anche questo nel Belpaese), nei giorni scorsi una spia russa, Artem Uss, è riuscito a scappare da Basiglio, un paesino vicino a “Milano 3” dove era stato posto dai magistrati agli arresti domiciliari.

Di chi è la colpa? Del ministro della Giustizia? Dei magistrati di Milano che hanno messo una spia agli arresti domiciliari proprio in questo momento? Degli organi di vigilanza e del braccialetto al polso di Uss che non funzionava?

Secondo alcuni commenti stravaganti il tutto ricorda un film di James Bond. Qui galoppa la fantasia, forse perché ci si rifiuta di pensare alle nostre incapacità o alle nostre leggerezze anche in questioni come queste. Del resto il dossier Mitrokhin (ex archivista del Kgb) era pieno di nomi italiani (c’era un agente operativo anche nel comitato di redazione del Corriere della Sera di Roma), ma ovviamente tutto era, stranamente, di poca importanza.

Così come di poca importanza sembra il libro appena uscito di Enzo Carra, un portavoce e deputato democristiano, portato in aula con le manette come fosse un killer. Il libro, dal titolo L’ultima repubblica, è il racconto di quello che Carra ha dovuto passare al Tribunale di Milano durante la “redenzione” di Tangentopoli. Prima fu interrogato come testimone, poi dopo un paio di giorni fu di nuovo interrogato dall’“asso” degli inquisitori Tonino Di Pietro. E dopo cinque ore fu messo in galera.

Carra, che è morto il 2 febbraio scorso, ricorda che era ancora nei sotterranei del Palazzo di giustizia di Milano, con mani libere, quando arrivò una telefonata e una guardia con il viso stravolto gli mise le manette ai polsi con grande imbarazzo. Strano che quella scena fu ripresa dai fotografi e tutte le televisioni tranne la Rai. “Strano” per modo di dire, per la Rai di quel tempo.

Il libro di Enzo Carra ha trovato un editore dopo sei anni, ma il colpo grosso è la prefazione di Gherardo Colombo, proprio lui, uno degli uomini del pool, che sostiene che Carra non doveva essere imprigionato e quindi Di Pietro aveva sbagliato. Un uomo ingiustamente in galera, “un errorino” che chissà se desterà polemica storica sul fatidico ’92. Aspettiamo con ansia, nel “paradiso storico” italiano.

Intanto accontentiamoci di problemi irrisolti e difficilmente risolvibili, di un Paese triste e disincantato che aspetta riforme urgenti, mentre ascolta polemiche squinternate sulla nostra storia e registra gravi dimenticanze. Intanto interessiamoci, magari con un referendum, al destino di un’orsa del Trentino.

Scegliete voi se piangere o sorridere amaramente.

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