Giovedì la riunione della Bce e venerdì il Consiglio Ue straordinario sul gas. Due appuntamenti da cui i mercati si aspettano risposte cruciali. Due appuntamenti che però tengono il governo e gli italiani sulle spine. Il timore – avvalorato dagli osservatori e dalle dichiarazioni dei “falchi” del rigore finanziario – è che da Francoforte arrivi un aumento dei tassi significativo e il giorno dopo – in base ai rumors – che a Bruxelles i 27 non trovino un vero accordo sul tetto al prezzo del gas (reso, tra l’altro, irrilevante dalla decisione di Putin di interrompere i flussi dalla Russia). Che scenario si apre per i fondamentali e per i conti pubblici dell’Italia? Che cosa potrebbe o dovrebbe fare Draghi? E soprattutto, il prossimo governo si troverà con un doppio cerino in mano? Ne abbiamo parlato con Gustavo Piga, professore di economia politica all’Università Tor Vergata di Roma.



Professore, siamo alla vigilia di due cruciali appuntamenti europei: giovedì si riunisce la Bce e venerdì ci sarà un vertice Ue straordinario sul gas. Partiamo dalla politica monetaria. Che cosa dobbiamo aspettarci e che cosa dovremmo augurarci?

Gli indicatori segnalano che è in arrivo un vento sempre più gelido dall’Est, una recessione, forte e asimmetrica, che toccherà tutto il pianeta, ma che investirà soprattutto proprio l’Europa. E ci si aspetterebbe che la Ue reagisca con una politica economica relativamente più espansiva rispetto al resto del mondo. Anche perché la politica fiscale è più lenta, ha bisogno di mesi per l’approvazione delle misure, rispetto alla politica monetaria, che in questo momento dovrebbe essere meno restrittiva.



Succederà?

Non credo. Questo porterebbe a un rapido e anticipato deprezzamento dell’euro.

In effetti l’euro si sta già indebolendo.

Vero, ma si sta indebolendo molto meno della gravità delle dimensioni della crisi globale. A mio avviso, c’è una sorprendente resistenza dell’euro.

E questo cosa significa?

I mercati stanno di fatto prezzando una politica monetaria della Bce non relativamente espansiva come dovrebbe. L’euro non si deprezza e ciò indica, appunto, aspettative del mercato sulle mosse della Bce più restrittive di quanto non dovremmo aspettarci in base alle condizioni del ciclo economico mondiale. Nel momento in cui dovremmo vedere, tutt’a un tratto, l’euro collassare – e per il nostro export non sarebbe davvero una cattiva notizia –, vorrà dire che la Bce sarà stata più espansiva del previsto.



La voce dei falchi però si fa sempre più grossa a favore di un aumento significativo dei tassi. Non c’è altro da fare?

Mi stupisce, perché è un momento in cui l’Europa non può giocare con il fuoco, essendo il malato più grave e l’attore politico più fragile del mondo. Una doppia debolezza, economica e politica, che dovrebbe indurre a maggior saggezza la Bce. In questo momento è meglio mettere sul tavolo un minore calo dell’inflazione piuttosto che un maggiore calo della produzione. La gente scende in piazza se perde il lavoro, non se perde un po’ del suo potere d’acquisto.

In questa Europa doppiamente fragile, noi siamo ancora i più deboli? E quindi l’impatto della stretta Bce sull’Italia sarebbe ancora più penalizzante?

Che significa “noi”? Se noi significa che siamo tutti noi europei, se un italiano è un europeo quanto un tedesco o olandese, se “pesa” quanto un tedesco o un olandese, quel noi dovrebbe portare a tenere conto delle nostre ferite.

Quindi?

Dovrebbe portare a considerare una politica monetaria sicuramente più espansiva. Il mio sospetto è che l’Italia sia considerata un po’ fuori dall’Europa. Ma se è così, la conseguenza è semplice: la politica monetaria è centralizzata a Francoforte, ma la politica fiscale non è ancora centralizzata a Bruxelles, e allora dobbiamo usare una politica economica diversa per quel Paese chiamato Italia. Va passata la palla dalla politica monetaria alle politiche fiscali. In questo momento così grave bisogna permettere all’Italia di esercitare una politica fiscale autonoma. Purtroppo questo non avviene. E non vedo cambiamenti all’orizzonte.

Perché?

In questa campagna elettorale il partito accreditato dei favori maggiori e che probabilmente dovrà guidare il prossimo governo, Fratelli d’Italia, ha detto urbi et orbi ai mercati che non intende effettuare uno scostamento di bilancio. Ciò conferma che l’autonomia in politica fiscale resta un miraggio e continueremo a essere la parte più fragile dell’Europa.

Insomma, una sorta di circolo vizioso da cui non si vuol far uscire il Paese. Nonostante il nostro elevato debito pubblico, abbiamo la possibilità di far valere le nostre ragioni a Bruxelles?

Tutto sta a vedere cosa succederà il 26 settembre. Qualora FdI dovesse vincere e la Meloni essere confermata dal Quirinale a Palazzo Chigi, solo a quel punto capiremo le reali intenzioni.

Che cosa intende dire?

Solo dal 26 settembre potremo verificare se le dichiarazioni sullo scostamento sono solo un bluff opportunistico o se invece sono realtà.

Se così fosse?

Se FdI, che molto probabilmente verrà votato per cambiare le cose in Italia, deciderà di ripetere gli errori commessi negli ultimi 10 anni, siamo finiti. Se invece ci sarà uno scostamento per aiutare le imprese a non chiudere, se si userà la politica fiscale come strumento per sostenere l’economia reale, soprattutto attraverso gli investimenti pubblici e non sperperando risorse come fece il governo giallo-verde con lo scostamento iniziale tutto incentrato su Reddito di cittadinanza e Quota 100, a quel punto si pone una questione.

Quale?

Che cosa mette sul tavolo europeo in cambio la Meloni?

Ha una buona carta da giocare?

Dobbiamo mettere la spending review. La vera assicurazione che dobbiamo dare all’Ue è la qualità della spesa, non il taglio della spesa, perché non spendere uccide l’Italia e uccide l’Europa.

Di spending review si parla da anni, ma di concreto si è visto poco o nulla.

Infatti è una scelta che nessun governo italiano ha mai portato avanti: occorre garantire che la spesa che sosterremo per aiutare l’economia sarà una spesa di qualità, in grado di generare una crescita tale da abbattere il rapporto debito/Pil, rendendo così il nostro debito pubblico più sostenibile. Il contrario di quello che è successo in questi anni con l’austerità, che ha fatto salire il nostro debito prima dal 100% al 130% e poi con la pandemia al 150%.

Il governo Draghi è dimissionario, è in carica per sbrigare gli affari correnti, ma non può scavallare una scadenza importante: la NaDef. Potrebbe essere l’occasione per tracciare la via della spesa di qualità?

Premesso che di programmatico nella NaDef non ci sarà nulla, perché Draghi aspetterà che sia il nuovo governo a dettare le linee per fissare le dimensioni del deficit del nostro paese, la sua domanda pone una questione molto interessante. Sì, il governo Draghi potrebbe mettere molto nella NaDef sulla spending review, intesa appunto come miglioramento della qualità della spesa pubblica. Il buongiorno però si doveva vedere dal mattino. Ripeto: negli ultimi 10 anni non ho visto nessun governo focalizzarsi su questo tema e anche la scelta a suo tempo di Cottarelli come Commissario straordinario per la spending review non ha funzionato.

Secondo lei, perché?

Non credo alla filosofia dell’uomo solo al comando: per fare la rivoluzione della spesa di qualità ci vuole un primo ministro che si spende in prima persona per eliminare gli sprechi enormi che ci sono, specie negli appalti pubblici.

Draghi ha spronato il governo a lavorare duro. Prima di lasciare Palazzo Chigi vuole accelerare sulla realizzazione del Pnrr, però mancano i decreti attuativi, e il Piano fatica a decollare. E se perdiamo quei fondi?

I fondi del Pnrr li stiamo già perdendo. È stato lo stesso ministro Franco ad ammettere che nel 2021 abbiamo speso solo 5 miliardi dei 15 a noi assegnati. Sono stati rinviati e così abbiamo bruciato almeno lo 0,6% di crescita. Ecco perché la nostra ripresa post-Covid sta rallentando. La domanda è: perché li abbiamo persi?

La sua risposta?

Il governo non ha fatto nulla per mettere in piedi una macchina organizzativa capace di spendere quei fondi. Si parlava di assumere mille persone per lavorare proprio sul Pnrr, sappiamo oggi che sono andate via, non sono state utilizzate. Era invece fondamentale immettere leve competenti e ben retribuite per riuscire a spendere quei 15 miliardi. Già adesso il Pnrr non lo stiamo usando.

Inflazione, emergenza energetica, Covid, guerra in Ucraina: in un simile scenario c’è chi invoca un nuovo Pnrr. Andrebbe cambiato?

Certo che dobbiamo cambiare il Pnrr, e non solo per fronteggiare la drammatica crisi energetica, che richiede capitoli di spesa diversi rispetto alla versione originale del Piano, ma anche per mettere a posto questo nodo drammatico: dobbiamo investire in capacità amministrativa, inserire gente capace nella cabina di regia delle stazioni appaltanti su tutto il territorio nazionale per fare gli acquisti e farli rapidamente. Ma questo non è previsto dal Pnrr, le risorse non sono state stanziate, ed è un errore. Che senso ha dire che avviamo mille gare, se poi 700 restano ferme o sono bloccate dai ricorsi o vengono indette con grave ritardo? Così è come non avere il Pnrr. Anzi, credo che proprio questo governo lo abbia già messo a rischio. 

 (Marco Biscella)

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