Il governo arranca e l’approvazione delle legge di bilancio sembra destinata a far deflagrare tutte le tensioni accumulate nella maggioranza. Oltre alla fragilità politica, l’anomalia della situazione italiana sta nella “carenza di legittimazione di Conte e nei danni che essa ha prodotto”, spiega al Sussidiario Stelio Mangiameli, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Teramo.
Si noti che i due principali misfatti del governo – l’assenza di un piano per la pandemia nella seconda sondata e la rottura del rapporto con le regioni – nella lettura di Mangiameli sono un effetto della mancanza di legittimazione del premier e non il contrario.
Se ne può uscire non con le urne, ma con un nuovo patto tra i partiti di maggioranza e opposizione, “un accordo politico nell’interesse della Repubblica che definisca in parlamento le azioni e le misure di governo”.
Non siamo in crisi di governo ma poco ci manca. Perché?
Dalle elezioni del 2018, sembra essere passata un’eternità e non semplicemente poco più di un anno e mezzo. Tutto è cambiato, tranne l’inedita posizione del presidente del Consiglio, che continua a essere priva di una legittimazione costituzionale adeguata alla forma di governo parlamentare prescritta dalla Costituzione.
Lei ha già sottolineato questo punto. Perché lo ritiene così importante?
Gli osservatori banali osservano che la Costituzione non prescrive espressamente che il capo del governo debba essere un membro delle Camere e, per di più, un politico di primo piano, come il leader di un partito, e traggono così la conseguenza che può essere un cittadino qualsiasi, anche preso dalla strada.
E invece?
Si tratta di una lettura inadeguata della Carta costituzionale. Infatti, questa, nel prescrivere la forma di governo parlamentare (art. 94), presuppone una realtà politica e istituzionale, che si ricollega al diritto elettorale (art. 48), alla formazione delle Camere (art. 55) e alla libertà di formare partiti politici (art. 49).
E questo che cosa comporta?
Le disposizioni della Costituzione, lette sistematicamente, prevedono che i partiti politici si scontrino nella campagna elettorale per la conquista del consenso e la formazione delle Camere e, sulla base dei risultati elettorali, formino la maggioranza.
Bene. E poi?
In questo contesto, chi ha guidato il partito che ha vinto le elezioni o che ha conquistato la maggioranza relativa è quello legittimato anche a guidare il governo. Nella forma di governo parlamentare la leadership culmina nella premiership.
Con quali conseguenze dal punto di vista della rappresentanza democratica?
Ciò dà certezza che le decisioni proposte dal premier al parlamento sono il frutto di un processo alla cui base sta la volontà dei cittadini e non una qualche altra volontà diversa dalla loro.
Ma qual è il punto di caduta della nostra anomalia attuale?
Già l’idea che il presidente del Consiglio avrebbe dovuto arbitrare due vicepresidenti che erano i due capi della coalizione, come era ai tempi del governo Conte 1, ha impedito di avere una guida del governo come quella descritta dalla Costituzione nell’art. 95, dove è previsto che il presidente del Consiglio “dirige la politica generale del governo e ne è responsabile”.
Lo ha fatto dopo, quando è scoppiata la pandemia.
Ma i Dpcm, che sono fuori dalle procedure costituzionali, hanno emarginato le camere. Allora ci si è chiesti – non senza motivo – quale fosse il fondamento politico di quanto stava accadendo nella nostra democrazia. Come vede, torniamo al problema della legittimazione.
Ravvisa una differenza nella gestione della pandemia tra prima e seconda ondata?
Finché si è trattato di imporre divieti assoluti e generali, in nome della prevenzione, come è accaduto in primavera, le critiche sono state superate dalla modifica di alcuni decreti legge e qualche “fiducia” posta dal governo per ricompattare la maggioranza.
E quando siamo entrati nella seconda ondata?
Si è subito capito che le chiusure totali non erano più possibili. Sia per ragioni economiche, sia per motivi politici. A quel punto i danni prodotti dalla carenza di legittimazione sono apparsi immediatamente visibili.
Qual è stato l’errore più vistoso?
Ne segnalo due. Il primo: il governo si è mosso, dalla riapertura di maggio sino ad oggi, senza un piano che considerasse, oltre alla sanità, la scuola, i trasporti, le attività produttive. In questo modo ha aggravato gli effetti della pandemia.
Il secondo errore?
Si è incrinato il rapporto con le Regioni, che era stato il punto di forza della prima ondata, e queste hanno dovuto rispondere con vigore, nonostante certi media, al tentativo del governo di addossare loro la responsabilità dei contagi e dei morti.
Da ultimo il Recovery Plan ha messo in discussione il quadro politico. Si va dal possibile rimpasto all’ipotesi di crisi di governo.
Conte è come Ulisse che naviga tra Scilla e Cariddi. Da una parte c’è l’Europa, dall’altra la sua maggioranza, che non gli riconosce più il potere di direzione del governo. Ovviamente, non sappiamo se sia altrettanto bravo come Ulisse.
I fondi sono condizionati – oltre che alla restituzione, per la parte dei prestiti – ai progetti che piacciono a Bruxelles. Non è l’aspetto più saliente?
Dal punto di vista dei contenuti si tratta di scegliere progetti che siano in linea con la strategia europea delle trasformazioni verde e digitale dell’economia. È vero, ci sono anche limiti quantitativi che provengono dall’Ue, ma questi sono solo dei paletti generali che dovrebbero servire ad avere progetti in tutta Europa che ubbidiscano ad un principio di omogeneità generale. Per il resto è tutto rimesso agli Stati membri.
Conte sa benissimo che il suo futuro politico dipende dal riuscire a condurre i progetti in porto. Se apre ai partiti, il risultato potrebbe sfumare.
Certamente. Ma vede, è la debolezza istituzionale del governo italiano che fa del Recovery Plan non una questione di progettualità, ma di puro potere tra le forze politiche della maggioranza, la quale è d’accordo solo su un punto: escludere del tutto le opposizioni, commettendo così un ennesimo errore.
L’alternativa Ue-partiti non le sembra un vicolo cieco?
No. Non è che la politica non implichi anche una lotta sulle risorse pubbliche, con vantaggi personali e politici per partiti e leader. Ma questa lotta deve necessariamente coniugarsi con una visione strategica del paese che lo collochi nello scenario internazionale ed europeo.
Nel caso italiano?
Se Conte fosse un leader politico ci sarebbe anche questo aspetto; invece, per una sua carenza strutturale, si ha la sensazione che sinora sia mancato il profilo strategico del piano e che la discussione sia esclusivamente sulle quote che dovrebbero spettare a ciascuna parte politica.
Per sfuggire ai partiti politici, il capo del governo ha ipotizzato una governance dei fondi europei affidata ad una struttura esterna. Operazione legittima?
Quest’idea non è democratica, perché il piano di ripresa dovrebbe essere discusso e votato dal parlamento e realizzato dall’amministrazione. Invece la posizione di Conte esclude o ridimensiona fortemente le strutture ministeriali, investendole di un giudizio fortemente negativo.
Ma secondo lei la nostra amministrazione è o non è all’altezza?
Non è un segreto che l’amministrazione in Italia sia stato oggetto di riforme fallimentari negli ultimi dieci anni. Tuttavia essa ha il compito di servire e realizzare i comandi della politica. Se funziona male, la responsabilità non può essere solo della nomenclatura burocratica, ma di chi comanda, che non sa impartire gli ordini giusti.
Ci sono esempi virtuosi?
La vicenda del ponte di Genova insegna che una volontà di governo chiara e forte produce attività amministrativa e risultati in tempi ragionevoli. Invece una mancanza di volontà politica, chiara e determinata, causa l’appesantimento burocratico e forti ritardi nelle realizzazioni, come nel caso della Tav.
Che cosa si può fare nella presente situazione?
Il Recovery Plan potrebbe essere un’occasione per rinnovare la formazione dell’amministrazione e i suoi metodi di lavoro, invece di fornire un escamotage per scappare dai ministeri. Ma per tornare al nostro filo conduttore, c’è anche qui un’osservazione importante da fare.
Quale?
La delegittimazione del potere burocratico non rilegittima il potere del presidente Conte. Tanto è vero che questa circostanza sta aggravando la sua posizione, sino a rendere possibile una crisi di governo.
Se cade il governo si va a votare, dicono apertamente Pd e 5 Stelle. Come vede questa prospettiva? Sarebbe una soluzione o una sciagura?
In democrazia le elezioni non sono mai una sciagura e non è vero che gli scioglimenti anticipati logorino la forma di governo parlamentare. La tradizione italiana, e non solo, lo mostrano chiaramente. Semmai, la democrazia si deprezza quando gli eletti restano solo per mantenere il loro seggio e accettano ogni tipo di politica, anche quella che non serve al paese.
Lei manderebbe l’Italia a votare in tempo di pandemia?
Fatta questa premessa, è evidente che gennaio 2021 non è il momento migliore per sciogliere le camere e non è solo un problema di opportunità; c’è la campagna vaccinale, il pericolo di una terza ondata e, last not least, i progetti del Recovery.
Meglio allora evitare il voto.
Ma evitare le elezioni non può essere una semplice manovra di palazzo per mantenere Palazzo Chigi e la spartizione delle risorse del Recovery Plan.
Allora come ne usciamo?
Le forze politiche – di maggioranza e di opposizione – dovrebbero siglare un accordo politico nell’interesse della Repubblica e definire in Parlamento le azioni e le misure di governo, come accadde all’indomani della fine della guerra e negli anni del terrorismo.
La storia dovrebbero conoscerla, ma evidentemente non basta. Dia loro un’altra motivazione convincente.
Un accordo del genere sarebbe nell’interesse dei partiti stessi, ma soprattutto nell’interesse dei cittadini. È difficile che si raggiunga, ma non è detto che sia impossibile. Basterebbe rimuovere gli ostacoli personali e i pregiudizi politici.
(Federico Ferraù)