Scrivere delle riforme costituzionali e istituzionali il 15 agosto può sembrare un po’ stravagante. Tutti i politici sono in vacanza, come la maggior parte degli italiani, tranne quei 9 milioni che sono rimasti a casa; non c’è, in questi giorni, tanta voglia di leggere, i giornali calano la tiratura e sono pieni di notizie-non-notizie.
Eppure, proprio una situazione del genere, nella quale tacciono anche i maître à penser e i soloni che oscillano ormai vistosamente dal centrosinistra al centrodestra, una riflessione del genere può essere compiuta serenamente e senza alcuna animosità.
Il Governo in carica si accinge a compiere nove mesi, ma non sembra in condizione di partorire la riforma della forma di governo, né quella del regionalismo, nonostante la maggioranza che lo sostiene avesse chiesto il mandato, in tal senso, agli elettori durante la campagna elettorale, dopo la fine di una legislatura “indecente”, per gli esiti della forma di governo, con ben tre governi sostenuti da maggioranze profondamente difformi una dall’altra, e una polemica durante la pandemia legata ai rapporti tra Stato e Regioni segnata anche da indagini giudiziarie, e sanata, solo alla fine, dalla vaccinazione guidata dal generale Figliuolo.
È vero che le riforme costituzionali e istituzionali non si fanno in fretta e, forse, non sono neppure la prima cosa da fare. Tuttavia, ciò che sorprende è che Governo e maggioranza non abbiano dichiarato sui due temi niente di significativo e abbiano, invece, semplicemente aperto la porta alle opposizioni.
La ragione di questo comportamento è comprensibile; abbiamo al potere, con il massimo del consenso, un partito nel quale la maggior parte dei componenti, Meloni compresa, provengono da quella destra nostalgica che per anni, soprattutto con Giorgio Almirante, lasciava sopravvivere l’immagine del ventennio fascista, usava un linguaggio nostalgico e contestava la Resistenza come esperienza fondativa dell’ordine repubblicano.
È chiaro come con la nomea di “fascista”, richiamata strumentalmente ad ogni momento utile dalla sinistra e dai media alleati, ogni proposta di quella parte venga rifiutata o tacciata di stravolgere la Costituzione; per non parlare della riforma del regionalismo che dovrebbe essere cara alla Lega, della quale si afferma che è un modo per spaccare il Paese, come se il Paese non fosse già spaccato per colpe storiche che la sinistra, lungamente al governo, ha sistematicamente ignorato.
Di qui, perciò, oltre a giurare sulla Costituzione, a riconoscere il 25 aprile e a consegnare il fascismo alla storia, anche la ricerca di una reciproca legittimazione con l’opposizione, grazie al dibattito sulle riforme, invitando esperti e studiosi di centrosinistra a partecipare a comitati e seminari e dichiarandosi pronti a seguire la migliore idea anche se viene dagli “altri”. Solo che gli “altri”, che hanno smaniato per un’intera legislatura, quella tra il 2013 e il 2018, su sollecitazione dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, adesso sembrano non avere proprio nulla da dire.
Così poste le questioni, conviene veramente parlare di riforme di ampia portata, sotto l’egida di attacchi ideologici e senza una reale esposizione della maggioranza e delle opposizioni?
Se si vuole esaminare correttamente la situazione italiana, bisogna dire che l’ansia di toccare la forma di governo nasce non da un bisogno di obsolescenza costituzionale, bensì dalla condizione pietosa in cui versa da tempo il sistema politico; come pure la volontà di intervenire sul regionalismo non origina da una presunta necessità di mantenere dei poteri in capo allo Stato, o dal rivendicarne l’esercizio, tanto più che proprio lo Stato non è in grado di esercitare i poteri di cui è titolare, implicitamente o esplicitamente.
Per porre ordine alle istituzioni di governo, perciò, non è necessario stravolgere la forma di governo, sbagliando – tra l’altro – anche la terminologia costituzionale: si chiama “premierato” l’elezione diretta del presidente del consiglio dei ministri; ma il premierato deriva dall’esperienza inglese, dove il Primo ministro è il capo del partito che vince le elezioni politiche, ottenendo la maggioranza dei seggi all’interno della Camera dei comuni. In Italia l’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri finirebbe con l’essere palesemente una manipolazione del consenso, con il fine di concedere il potere di governo (esecutivo e legislativo compreso) – data l’attuale frammentazione del sistema politico – ad una minoranza; così come non ha nulla a che vedere con il presidenzialismo, che si basa su una legittimazione del Presidente autonoma e differente da quella del Parlamento e si basa su una più netta distinzione dei poteri: al parlamento il legislativo e al presidente l’esecutivo.
Peraltro, visto anche la tenuta che sembra avere l’attuale maggioranza e leadership, molto più prossima di quanto non si pensi a quella di un cancellierato tedesco, sarebbe sufficiente restare nel terreno disegnato dalla Costituzione, migliorando le regole di formazione della rappresentanza, con una riforma della legge elettorale che ridia il potere massimo all’elettore, a cominciare dalla sottoscrizione delle candidature.
Quanto al regionalismo, anziché spingere per una differenziazione che – a sentire il ministro Calderoli – è richiesta da 13 Regioni ordinarie su 15, e che porterebbe al vestito di Arlecchino, sarebbe utile forse puntare su un riordino generale delle funzioni, rivedendo la distribuzione delle risorse finanziarie, migliorando il monitoraggio delle spese e adeguando la perequazione territoriale e la funzionalità dei servizi; per fare ciò, sarebbe necessario essenzialmente incrementare il principio di collaborazione tra Stato e Regioni e autonomie locali, in modo che le Regioni e le autonomie imparino dallo Stato, ma anche che questo impari dalle buone pratiche delle Regioni e delle autonomie.
Per realizzare questi utili cambiamenti (legge elettorale e riordino delle funzioni) basta un accordo (una convenzione costituzionale) tra la maggioranza e le opposizioni e più esattamente tra il leader del partito di maggioranza relativa, che in questo caso coincide con la presidente Meloni, e il leader del partito maggiore dell’opposizione, che non si sa bene chi sia ed è questo anche un motivo per cui le opposizioni tacciono, tranne dire sempre e solo “no”.
In passato il Pd e FI hanno provato: prima con D’Alema e Berlusconi (1997) e poi con Renzi e Berlusconi (2014), ma è andata sempre male, perché in un modo o nell’altro l’accordo non era permeato da lealtà.
Adesso bisogna prima comprendere se il consenso di FdI si consolida con le elezioni europee del 2024 e, in secondo luogo, se in quell’occasione riesce ad emergere un partito di maggior consenso tra le opposizioni, sia esso il M5s o il Pd. Ove mai ciò accadesse, sarebbe necessario che il leader dello schieramento di opposizione fosse disposto a raggiungere un accordo leale nell’interesse del Paese.
Insomma il nodo delle riforme istituzionali richiede tanta prudenza e ancora tempo, dovendosi passare per le europee, e, soprattutto, tanta chiarezza politica. Quella che ancora non emerge.
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