In Europa negli ultimi due giorni sono accaduti due fatti che meritano di essere letti assieme. Il primo è lo scandalo Qatargate; alcuni politici europei si sarebbero prestati, dietro compenso, a fare lobby per gli interessi del Qatar e delle sue esportazioni di gas tra i membri del Parlamento europeo. È uno sviluppo preoccupante per la crisi energetica europea, perché il Qatar è il secondo Paese al mondo, dietro la Russia, per riserve di gas e l’Europa negli ultimi mesi si era rivolta al Paese del Golfo per rimpiazzare le forniture perse con le sanzioni contro Mosca. Lo scandalo scoppiato negli ultimi giorni non farà bene ai rapporti tra Europa e Qatar e, come minimo, il Vecchio continente avrà una grana in più. Se la questione vera non è quello che è accaduto, “l’attività di lobby sfrenata”, ma il soggetto, allora per l’Europa la crisi energetica diventa ancora più difficile, perché i Paesi produttori a cui ci si rivolge per far funzionare le centrali elettriche e i caloriferi spesso e volentieri non rispettano i canoni di “bellezza” dell’Occidente. Infatti, la soluzione immediatamente invocata da più parti in Europa è quella di accelerare sulle rinnovabili.
È la parte buona della “rivoluzione green” che alimenta il sogno europeo di aumentare la sovranità svincolandosi dagli idrocarburi che il continente non ha. Dunque, grazie a pale eoliche e pannelli solari, basta rapporti con Paesi che “non rispettano i diritti”, basta ricatti. Questi appelli rinnovati avvengono a tre giorni dall’esplosione dei prezzi dell’elettricità nel Regno unito, a 2.000 euro a megawattora; e non c’entra la Brexit, ma il fatto che non c’è vento e fa freddo e le pale eoliche non girano. Moltiplicare per due, per dieci o per cento il numero di campi eolici non è una soluzione, perché se il vento non soffia rimangono tutte ferme. In tutto il mondo, tranne che in Europa, si è reso evidente che le rinnovabili non sono una soluzione nei prossimi cinque anni, ma nei prossimi venti e che quindi bisogna accantonare i sogni per evitare di devastare economia e famiglie.
La seconda notizia è l’accordo raggiunto in sede europea per approvare un sistema di dazi alle importazioni basato sulle emissioni green. È una novità che i Paesi esportatori hanno ovviamente giudicato come una politica protezionistica. I dazi green sono l’inevitabile contraltare della rivoluzione green europea e la prova provata che questa rivoluzione è inflattiva e costosa. Se l’Europa decide di imporre alle sue aziende costi più alti che gli altri non impongono, si pensi banalmente alla carbon tax, allora deve anche introdurre dazi, altrimenti le produzioni europee fatte con i vincoli e i costi “green” si troverebbero completamente fuori competizione rispetto a quelle fatte nei Paesi che non impongono quei costi.
L’Europa, che per decenni ha prosperato sulla competitività delle sue imprese e sulle esportazioni, decide di cambiare modello; se introduce dazi, a prescindere dalla bontà delle idee che li giustificano, i suoi partner commerciali non potranno far altro che rispondere. L’Europa in questo modo decide di non offrire alcuna scappatoia ai propri cittadini dai costi della rivoluzione verde; le sue imprese e i suoi cittadini non potranno scamparli comprando dall’estero e da quei Paesi che invece hanno deciso per una transizione più lenta oppure che non si possono permettere “il sogno rinnovabile”, oppure che semplicemente hanno ritenuto i costi sociali associati alla crisi economica (pensiamo ai tagli alla sanità) troppo alti. L’inflazione europea sarà sensibilmente più alta di quella dei suoi “competitor”; non è chiaro poi cosa rimarrà delle sue imprese, che vivono di esportazioni, nel nuovo modello protezionista.
Se mettiamo insieme da un lato lo “scandalo” per i rapporti con uno dei principali Paesi produttori di gas che fa, rullo di tamburi, lobby su uno dei più grandi importatori e che si deve “risolvere” con più rinnovabili, e dall’altro la decisione di abbandonare il modello mercantilista per sposarne uno protezionista in salsa green, quello che abbiamo è un blocco che si autoesclude dai mercati internazionali per portare fino in fondo la propria rivoluzione green. Speriamo che non finisca come il blocco sovietico che ha deciso di portare fino in fondo la rivoluzione comunista. Lo speriamo contro ogni speranza, perché già si parla di blackout, razionamenti energetici e limiti personali e familiari alle emissioni. L’importante, per Bruxelles, è raggiungere il sogno green tra cinque anni, dieci al massimo, anche se bisognerà imporre la tessera annonaria. L’ultima volta sono passati 70 anni.
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