Si vanno raccogliendo firme per la presentazione di referendum in molte materie; in altri casi sono già stati depositati i quesiti. Gli elettori, nel prossimo anno, potrebbero così essere chiamati alle urne per votare sull’autonomia differenziata, sul Jobs Act, sul premierato, probabilmente sulla separazione delle carriere e per lo ius soli. Sorgono molte domande. La più importante potrebbe suonare così: democrazia diretta o democrazia rappresentativa sono due facce della stessa medaglia, oppure l’una è fattore di distruzione dell’altra, in questo caso della democrazia basata sul principio di rappresentanza e sulle elezioni?
Alcune note, per semplificare.
Uno: non c’è democrazia diretta senza istituzioni che la sorreggono (e ne permettono l’esplicitazione). Se non c’è un corpo elettorale (stabilito per legge), se non c’è l’organizzazione che permette di votare, se non ci sono organi di garanzia che soprassiedono al processo referendario, non si può far nulla, tantomeno un referendum.
Due: secondo gli storici, il collasso della Repubblica di Weimar e la conseguente salita al potere del nazismo è stato provocato (tra l’altro) da un uso eccessivo e distorto dell’istituto referendario, tanto che la Costituzione tedesca non prevede il referendum.
Tre: noi abbiamo il referendum (solo abrogativo), ma esorcizziamo lo spettro di Weimar affermando che la democrazia diretta “integra, corregge, migliora in alcuni aspetti specifici” quella rappresentativa; per questo si insiste sulla natura abrogativa del referendum e si cerca di limitare al massimo l’effetto (inevitabile) di creazione di una nuova regola (no ai referendum cosiddetti manipolativi).
Quattro: per sua natura il referendum è un camaleonte e cambia pelle a seconda di chi lo impugna. Può essere usato a molti scopi, anche diversi da quelli previsti dalla Costituzione. I radicali, ad esempio, lo hanno usato per procurarsi visibilità e consenso fino a che anche questa spinta si è esaurita (troppi referendum disattesi hanno indotto il popolo sovrano a non andare più alle urne. Tecnicamente, non si è più arrivati al quorum. Una crisi che Gaber aveva intuito benissimo).
Oggi assistiamo ad una pletora di richieste referendarie sugli argomenti più disparati. L’opposizione non si accontenta più di svolgere il suo ruolo in Parlamento; usa il referendum non per “correggere” alcunché (la legge Calderoli sull’autonomia differenziata, ad esempio) ma per delegittimare il governo eletto e tutte le sue azioni (e omissioni), soprattutto quelle qualificanti della sua politica. Si mira – in altre parole – a “fermare” la destra e radicalizzare lo scontro, opponendosi a tutto.
Può essere una politica efficace, in tempi di dominio della comunicazione e di superficialità nell’affrontare le questioni specifiche oggetto di referendum, dato che politicamente non si vota sul quesito, ma si vota contro il governo. Anche il referendum sull’acqua fu una dichiarazione di guerra a Berlusconi, e in effetti fu uno dei pochi che raggiunse il quorum, dopo molto astensionismo.
Così impugnato, il referendum non fa che accentuare la debolezza della democrazia rappresentativa e delle istituzioni che dal voto popolare ricevono la loro legittimazione ad agire e a governare. Potrebbe diventare un buon argomento per chi è a favore dell’elezione diretta del presidente del Consiglio (riforma che, peraltro, non prevede – e giustamente – la cancellazione del referendum). Potrebbe anche far risorgere lo spettro di Weimar. Attenzione: maneggiare con cura.
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