Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? È firmata nientemeno che da Cicerone in persona la figura retorica scelta ieri da Matteo Salvini, azionista di maggioranza del governo, per lanciare un nuovo ultimatum, o forse penultimatum, ai suoi interlocutori di governo: stavolta il premier Conte e il ministro dell’Economia Tria, e non il co-vicepremier Di Maio.



“Fino a quando penso di riuscire a tenere tranquilli i miei parlamentari della Lega che mi chiedono di andare a elezioni? Fino a quando le cose si fanno e se qualcuno la smette di insultare, attaccare e litigare quotidianamente”, ha detto Salvini ai microfoni di Radio24. Proprio come Cicerone alludendo a Catilina, che congiurava per rovesciare la Repubblica nel 63 avanti Cristo, oggi Salvini usa quest’espressione per segnare il tempo al presidente del Consiglio e al ministro dell’Economia. E aggiunge: “Io sono per andare avanti con questo governo, anche se la convenienza partitica e personale sarebbe un’altra. Certo se ogni giorno c’è un litigio o un attacco…”.



Nell’incessante diluvio mediatico che ha ucciso l’informazione – non con la censura ma con il suo opposto, cioè con l’inflazione assordante di messaggi che impedisce ormai ai più di distinguere quelli rilevanti da quelli insignificanti – le esternazioni salviniane di ieri meritano memoria.

Per la prima volta Salvini dice chiaro e tondo che i “suoi parlamentari” gli chiedono di tornare a votare. Dunque ci sarebbe una “convenienza partitica” a far saltare il banco di questo governo barzelletta. E poi ci sarebbe una “convenienza personale”, cioè effettivamente quella di mettere all’incasso l’enorme esplosione di popolarità, credibilità e comunque sèguito personale che il Capitano ha acquisito in questi mesi di governo.



Ma allora perché Salvini non lo fa? È la domanda che continua a stuzzicare i salviniani. Che non conoscono la risposta perché forse, fino in fondo, non la conosce nemmeno il capo.

A Salvini non difetta il coraggio, si sa: politico, e perfino un po’ anche fisico. Non perché abbia scelto di farsi odiare dai quattro molliconi della sinistra al caviale, ma perché sta dando fastidio agli scafisti e ai loro complici ndranghetisti e mafiosi, ad esempio; e forse anche a qualche bel servizio segreto, deviato o no, visto che nove mesi fa al Metropol di Mosca qualcuno si prendeva la briga di registrare i colloqui privati di due cittadini privati solo perché parte del seguito di Salvini…

Questo coraggio politico, unito a una certa qual amicizia personale nata con Luigi Di Maio, lo spinge a dire qualcosa come: “resisto finché acquisisco meriti facendo, pur tra mille vincoli, un po’ di cose utili agli occhi del mio elettorato e dei tanti indecisi, cose che mi confermino come leader concreto, capo del ‘fare’. Se non mi fanno fare più niente, mando all’aria tutto”: ma lo dice, o almeno lo fa capire, temendo in cuor suo che ciò accada sul serio, perché se ciò accadesse Salvini sa che poi non gestirebbe più almeno due variabili chiave: il Quirinale e i mercati. E forse una terza variabile: gli americani.

Non gestirebbe il Quirinale, perché Mattarella non sarebbe contento di dover riportare il Paese alle urne e dentro questo parlamento, virtualmente, una maggioranza di “responsabili” Cinquestelle-Pd potrebbe sempre coagularla. Non gestirebbe i mercati, perché se il governo saltasse, magari su uno scontro sulle tasse, si metterebbero con tutta probabilità a bersagliare i Btp e a far allargare lo spread; e tantomeno gestirebbe gli americani, perché non basterebbero le grandi pacche sulle spalle scambiate con Mike Pompeo e l’ok alla Tap per cancellare il sospetto per questa marcata intrinsichezza che Salvini ha dimostrato di avere – unica eredità berlusconiana – con il pericolosissimo entourage di Vladimir Putin.

Dunque Salvini non ha ancora davvero deciso di spingere per ottenere le elezioni anticipate. Ma con le promesse che ha fatto e ribadito qualcosa di forte deve pur fare: sull’autonomia regionale, di fatto ferma in commissione a Roma perché non si riesce a conciliare la severità con le Regioni dissipatrici del Sud con la manica larga che le Regioni del Nord usano in casa loro; o con le tasse, attraverso quel mille volte promesso e mai nato shock fiscale…

Mancano le risorse per tagliare sul serio le tasse: si parla di 4 miliardi disponibili, ma sono bricioline. E sul Sud manca l’accordo con i capi delle Regioni a rischio-tagli. Come farà Salvini a portare a casa sul fronte della finanza pubblica altri risultati misurabili concretamente come quelli ottenuti sul fronte migranti, fonte di mille polemiche? “Se il ministro dell’Economia del mio governo dice che di taglio delle tasse non se ne parla, o il problema sono io o è lui. Se qualcuno ha dubbi o paure, basta dirlo: ma allora quel qualcuno è fuori posto. Cosa faccio una manovra economica all’acqua di rose? l’Italia ha bisogno di uno choc fiscale forte”. E intanto che le agenzie battono l’avviso di Standard & Poor’s sulla precarietà della politica economica italiana, la domanda viene spontanea: ma che sovranità è rimasta a uno stato nazionale se non può andare oltre i 4 miliardi ad oggi liberi per opera e virtù della fattura elettronica? Che shock fiscale si può mai imprimere, con 4 miliardi?

Dunque Salvini pone una domanda retorica – “fino a quando, o Catalina, abuserai della nostra pazienza” – per non dover dare subito una risposta formale alle giuste domande sull’insostenibilità della situazione e sulla necessità di uscirne. Si attendono sviluppi.