“Recessione” e “numeri che spaventano”. La variabile della guerra, che si è incistata su una situazione già carica di incertezze e di tensioni, fa presagire a Confindustria uno scenario di “ampia revisione al ribasso” delle stime di crescita del nostro paese. Mentre il governo continua a prevedere un aumento del Pil intorno al 3%, il Centro studi Confindustria nel suo ultimo Rapporto di previsione “L’economia italiana alla prova del conflitto in Ucraina”, presentato a inizio aprile, stima una crescita 2022 tagliata a +1,9%, oltre due punti percentuali in meno rispetto alle stime dello scorso ottobre, “quando tutti i previsori erano concordi su un +4%”. Considerando il +2,3% di crescita acquisita per “l’ottimo rimbalzo dell’anno scorso”, l’Italia “entrerebbe così in una recessione tecnica, seppur di dimensioni limitate”.
E il ritorno ai livelli pre-Covid? Potrebbe slittare dal secondo trimestre di quest’anno al primo del prossimo. “Numeri che spaventano in maniera molto forte”, come ha sottolineato il leader degli industriali, Carlo Bonomi, il quale ha avvertito che questi scenari “dovrebbero costituire un serissimo allarme generale per le istituzioni e la politica del nostro Paese”.
Che cosa preoccupa così tanto? Che impatto avrà la guerra in Ucraina sull’economia e sull’industria? Che cosa sarebbe urgente fare per aiutare le imprese? Ne abbiamo parlato con Alessandro Fontana, direttore del Centro studi Confindustria, che vede profilarsi all’orizzonte nubi minacciose: “Entro tre mesi il 30-40% delle nostre imprese manifatturiere dovrà ridurre la propria capacità produttiva”.
Per l’economia italiana è in arrivo una recessione?
Dal punto di vista meramente statistico, l’economia italiana inizia l’anno con una crescita del Pil già acquisita del 2,3%, che deriva dall’inerzia del 2021. E se dovessimo registrare quest’anno quattro trimestri senza variazioni, cioè di perfetta stagnazione, chiuderemmo il 2022 con quel tasso di crescita già incorporato.
Voi però avete previsto un +1,9% di crescita del Pil…
Esatto, e tutti i valori sotto la soglia del +2,3% indicano che sarà un anno di recessione. Ma non siamo gli unici a prevederlo: anche Prometeia stima un +2,2%.
Perché la differenza di previsione fra il CsC e gli altri centri studi è così accentuata?
Perché al momento i modelli econometrici ancora non colgono appieno l’impatto della guerra in Ucraina, che noi invece abbiamo valutato partendo da una survey sulle imprese associate.
Che scenari si possono delineare per le principali variabili macroeconomiche?
Noi abbiamo delineato tre scenari. Il primo prevede la fine della guerra entro giugno, evento che tuttavia non determinerà un ritorno alla situazione antecedente, perché, molto probabilmente, potrà solo attenuare e non azzerare alcune delle tensioni in corso sui prezzi e sugli approvvigionamenti. In questo scenario base i prezzi medi delle materie prime alimentari ed energetiche rimarranno fino a giugno sui livelli raggiunti durante il primo mese di guerra, poi scenderanno leggermente, seguendo la dinamica dei futures, ma resteranno pur sempre molto più alti rispetto a prima del conflitto russo-ucraino.
Risultato?
La crescita nel 2022 sarà appunto +1,9%, mentre nel 2023 avremo un +1,6%.
Nel secondo scenario?
I prezzi medi delle materie prime, raggiunti nel primo mese di guerra, persisteranno fino a fine 2022, iniziando a scendere solo nel 2023, e questo determinerà quest’anno un’ulteriore limatura del tasso di crescita dello 0,3%, cioè scenderemo al +1,6%, con un +1% il prossimo anno.
E il terzo?
I prezzi rimangono così alti, come nel primo mese di guerra, anche per tutto il 2023 e in tal caso avremmo una crescita 2022 dell’1,5%, ma nel 2023 andremmo addirittura in territorio negativo: -0,1%. E’ lo scenario più severo, ma per ora ha probabilità basse di verificarsi, anche se ci sono molti esperti di geopolitica che prevedono un conflitto prolungato, una sorta di guerriglia a bassa intensità, con conseguenze sui prezzi, che rimarrebbero così su livelli elevati.
Tutto questo ha spinto il presidente Bonomi a parlare di dati sull’economia che “spaventano in maniera molto forte”?
A parte il fatto che andiamo incontro a una recessione, a preoccupare è anche l’indagine che abbiamo condotto su un campione di nostre imprese associate e dalla quale emergono numeri tutt’altro che confortanti.
Per esempio?
Abbiamo chiesto agli imprenditori se, in presenza di queste tensioni, avessero già dovuto ridurre la produzione e il 16,4% ha risposto che l’ha già ridotta. La quota sale al 22% fra le aziende dei settori energivori. Non solo: alla domanda “fino a quando pensa di mantenere gli attuali livelli produttivi?”, il 35,6% ha dichiarato che entro tre mesi sarà costretto a tagliare la produzione. Ciò significa che a giugno potremmo trovarci con quasi un’impresa su due del nostro campione che avrà ridotto le sue capacità produttive. E’ una prospettiva molto grave, che peserà molto sull’andamento del Pil.
E se proiettassimo questi dati a livello nazionale?
Possiamo stimare che il 30-40% delle imprese italiane dovrà ridurre la produzione.
Quanto pesa il conflitto ucraino sull’economia italiana?
A ottobre 2021 stimavamo che il Pil 2022 sarebbe cresciuto del 4,1%, poi quello che è successo nell’ultimo trimestre dell’anno e nei primi mesi del 2022, con rincari fortissimi in Europa dei prezzi di gas e petrolio che hanno anticipato pure gli aumenti legati allo scoppio del conflitto in Ucraina, ci sta portando a una crescita ferma al +1,9%. Tutto ciò per dire che la guerra costerà 2,2 punti percentuali di impatto sull’economia italiana.
L’aumento delle materie prime sta mettendo in ginocchio l’industria italiana?
Senza dubbio, è uno shock che rischia di bloccare le vendite e di mettere fuori mercato molte nostre imprese. Gli aumenti dei prezzi delle materie prime e le difficoltà di approvvigionamento stanno facendo lievitare i costi produttivi, che non si riescono a scaricare a valle, perché gli accordi già stipulati con la catena intermedia della filiera o con la distribuzione non si possono ritoccare. E questo è più evidente in Italia che negli altri paesi europei.
Per quali motivi?
Perché l’inflazione core, al netto cioè delle componenti alimentare ed energia, è all’1,7%, tra le più basse nella Ue. Questo significa che i margini delle imprese sono sempre più compressi, al punto che a molte imprese non conviene più produrre, perché lo farebbero in perdita.
Le tensioni internazionali stanno frenando anche l’export italiano?
Impatti ce ne saranno. Le sanzioni, infatti, bloccano una parte del nostro export, quella maggiormente esposta con la Russia. Nel complesso è una quota contenuta, ma ci sono alcuni settori, come quello delle apparecchiature tecnologiche o del lusso, in cui l’interscambio con Mosca rappresenta una fetta importante delle proprie esportazioni.
Al di là delle sanzioni?
Riguardo alla Russia, oltre al blocco delle attività bancarie, dobbiamo fare i conti anche con il blocco degli aerei cargo e presto con quello navale, mentre nel contempo è diventato molto difficile far transitare le merci nell’Ucraina in guerra. In più, questi paesi sono sulle rotte dell’import con l’Oriente, come per esempio, la nuova Via della Seta, che passa per il mar d’Azov. Infatti, dalla nostra indagine è emerso che già il 57% delle imprese italiane stanno incontrando difficoltà, a livello commerciale e di trasporto merci, non solo con i paesi coinvolti nella guerra, ma anche su altre rotte.
Quali misure dovrebbero essere adottate per aiutare le imprese italiane in questo delicato e difficile frangente?
In questo momento l’obiettivo ultimo dovrebbe essere quello di poter avere un prezzo dell’energia compatibile con i costi produttivi.
Come raggiungerlo?
Ci sono diverse strade. La più onerosa consiste nel rimborsare le imprese sugli extra costi superiori a questa soglia. Secondo le nostre previsioni, in base a un prezzo medio 2022 del gas di 122 euro al Mwh, le imprese arriverebbero a pagare 68 miliardi e un’eventuale compensazione degli aumenti richiederebbe almeno 40 miliardi di risorse pubbliche. E probabilmente ne servirebbero altrettanti anche per compensare il caro bollette delle famiglie.
Alternative meno costose?
Potremmo intervenire sulla parte regolatoria. Oggi tutta l’energia, anche quella rinnovabile, che non ha subìto aumenti di prezzo della materia prima, viene pagata al costo marginale, cioè al prezzo di quella prodotta dal gas. Scindere queste componenti, destinando alle imprese parte dell’energia prodotta a costi più convenienti, darebbe sollievo alla bolletta energetica pagata dall’industria. Da parte loro le imprese si impegnerebbero a fare investimenti green, garantendo così in due-tre anni 8-10 Mwh prodotti con le rinnovabili. Oppure si potrebbe intervenire in modo ancora più deciso sugli oneri fiscali e parafiscali della bolletta. Infine, a livello europeo, ci si potrebbe organizzare per individuare un tetto al prezzo basato sul costo delle importazioni.
(Marco Biscella)
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