Il Fondo monetario internazionale è pessimista e prevede una recessione a fine anno per i quattro principali Paesi europei: Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia. Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, è più cauto e sostiene che la crescita si sta già riducendo, ma una recessione “è poco probabile”. La guerra in Ucraina è terribile da tutti i punti di vista, tuttavia i suoi effetti economici non sono così vasti e così intensi come quelli della pandemia o della crisi finanziaria del 2008-2010.
Speriamo che abbia ragione Visco, in ogni caso prendendo per buone le stime del Fmi l’Italia non riuscirà a recuperare nemmeno quest’anno il prodotto lordo perduto con la pandemia. Il Pil dovrebbe aumentare del 2,3% appena, un punto e mezzo meno delle previsioni precedenti. Incide moltissimo la frenata della Germania, principale sbocco delle merci italiane, che crescerà appena del 2,1%. E quel che è peggio, mentre il conflitto in Ucraina non si ferma, diventa impossibile capire cosa accadrà il prossimo anno.
Alle molte variabili non calcolabili se ne aggiunge un’altra: il cambio di marcia della politica monetaria. La Federal Reserve aumenta i tassi e la Bce seguirà anche se a distanza di qualche mese, dopo l’estate che, ormai, è già le porte. La lunga era dell’espansione e dei tassi a zero, è finita. Ma se possono tirare un sospiro di sollievo i Paesi in cui l’inflazione è diventata il problema economico numero uno, per l’Italia la cui priorità resta la crescita attraverso la quale ridurre il debito pubblico, sono guai.
Non è la politica monetaria lo strumento migliore per affrontare gli effetti economici della guerra, dice il Fondo monetario, il compito spetta ai Governi attraverso la politica fiscale. In altri termini, meno tasse e più spese. È già avvenuto durante la pandemia e, grazie anche alla moneta abbondante e troppo a buon mercato, è stata alimentata un’inflazione che rischia di sfuggire di mano. Secondo l’Economist, negli Stati Uniti è già successo e la Fed ha fallito (è questa la sua storia di copertina questa settimana). Il Financial Times titola in prima pagina che la banca centrale americana, dove ormai prevalgono i falchi, getta incertezza sui mercati. L’Italia con la fine sia pur progressiva del Quantitative easing e la prospettiva di un ritocco dei tassi all’insù, deve ricominciare a farsi largo sul mercato per piazzare i suoi titoli di stato. Si vedono già i primi segnali al rialzo nei rendimenti dei Btp (per il momento sono sotto pressione quelli a sette anni). Gli spazi, dunque, si riducono proprio nel momento in cui non sembrano esserci alternative a una politica fiscale espansiva che eviti la recessione e compensi gli effetti della stretta energetica e della riduzione della domanda estera per il made in Italy.
L’agenzia Standard & Poor’s ha confermato il rating BBB/A-2 per il debito italiano con outlook positivo. Questo giudizio riflette “le ampie riforme pro-crescita che le autorità italiane stanno attuando nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr): esse migliorano l’ambiente imprenditoriale italiano e l’efficacia del sistema giudiziario, riducono la burocrazia, aumentano la partecipazione al lavoro e finanziare gli investimenti nelle energie rinnovabili”. Secondo S&P, nel lungo termine esse dovrebbero mitigare i rischi per l’economia italiana derivanti dal conflitto tra Russia e Ucraina (sempre se la situazione non si aggraverà ancora). Mario Draghi non può che essere contento, tuttavia l’ottimismo dell’agenzia di rating va mitigato se si guarda al breve termine. Il caso dell’azienda farmaceutica Catalent di Anagni che ha deciso di spostare in Gran Bretagna l’investimento previsto pari a cento milioni di euro per colpa delle lungaggini e degli impedimenti burocratici che da due anni bloccano ogni decisione operativa, mostra quanta strada bisogna ancora fare per rendere l’Italia business friendly.
Non solo. È chiaro che di qui ai prossimi mesi non saranno le riforme la priorità politica. Tamponare le spinte recessive è l’esigenza numero uno. E ciò mette di nuovo sotto stress il bilancio pubblico. Il 2021 è andato meglio del previsto, la crescita ha ridotto sia il debito sul Pil, sia il disavanzo pubblico previsti. C’è un margine, dunque, che il Governo ha deciso di tenere in serbo per i tempi peggiori, centellinando le misure di sostegno e mettendo in campo un Documento di economia e finanza che trasuda cautela da ogni pagina. Sia Daniele Franco, sia Draghi sanno bene che quei parametri difficilmente reggeranno, ma se la prudenza è stata una virtù, in futuro avremo bisogno di decisioni ben più ardite. E qui la necessità rischia di scontrasi con la possibilità, la logica economica con quella politica. Le elezioni parlamentari della prossima primavera sono già il primo dei pensieri per i partiti. Ci sarà senza dubbio una forte spinta a spendere senza tener conto delle compatibilità (lo si è visto anche nella campagna elettorale in Francia). Con una crescita in ribasso, un debito in risalita, il denaro più caro e la Bce che non compra nuovi titoli di stato, dove finirà il rating del debito italiano?
Facciamo gli scongiuri? No, facciamo i conti e prendiamo le decisioni necessarie.
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