In tutta la zona euro l’economia è in netto rallentamento. L’indice dei responsabili degli acquisti, che misura l’attività nella manifattura e nei servizi, è sceso al minimo di cinque mesi nei dati pubblicati venerdì: 50,3 rispetto al 52,8 del mese precedente. Un dato inferiore alle ipotesi degli economisti intervistati dall’agenzia Reuters. La soglia dei 50 separa la contrazione dall’espansione e l’indice in genere non sbaglia. La frenata nell’industria manifatturiera non è una novità, la vera sorpresa è il brusco rallentamento del terziario che aveva continuato a tirare anche nel primo trimestre. Il calo è stato particolarmente marcato in Francia, dove i livelli di attività si sono contratti per la prima volta dall’inizio dell’anno.
L’indice PMI sembra contrastare con quel che vediamo ogni giorno nelle città letteralmente invase dai turisti, mentre ricominciano le difficoltà nei trasporti, soprattutto quelli aerei che lo scorso anno non sono stati in grado di far fronte all’improvviso boom. Questa frenetica voglia di viaggiare una volta usciti dalla pandemia, non sembra placarsi; è un bene per Paesi come l’Italia o la stessa Francia numero uno europeo nel turismo. Ma non ci sono solo gli alberghi e i ristoranti, il comparto dei servizi è il più vasto in tutte le economie post-industriali e da lì emergono segnali che la gente sposta le proprie preferenze, magari privilegiando i viaggi. Un altro indicatore importante riguarda il settore immobiliare dove le lancette puntano verso il basso, a cominciare dal mercato tedesco.
La Germania è già a crescita zero, ora anche la Francia sembra seguire la stessa traiettoria. E l’Italia? Le cose sono andate bene, meglio del previsto nel primo trimestre e il secondo sconta un effetto trascinamento. La Banca d’Italia che ha apprezzato la vitalità delle imprese, anche superiore alle aspettative, ora mette in guardia da quel che potrà accadere in autunno. Intanto emergono sintomi allarmanti di restrizione del credito.
Come evitare la recessione dovrebbe essere in cima all’agenda di Governo. Domina invece il tormentone sul Mes che sembra ormai il gioco del cerino: nessuno vuol fare la prima mossa. È accesa la discussione sul Pnrr, ben più seria e preoccupante: se la congiuntura si raffredda è fondamentale l’effetto degli investimenti pubblici, quelli finanziati dall’Ue perché nel bilancio pubblico italiano non c’è spazio per bonus, incentivi o aiuti vari. E i tecnici di Giancarlo Giorgetti si stanno già spaccando la testa per capire come mettere insieme la prossima Legge di bilancio.
L’Assobancaria ha pubblicato stime eloquenti: il tasso medio sui nuovi finanziamenti alle aziende è balzato in un anno dall’1,44% del giugno 2022 al 4,90% di questi giorni, tre punti e mezzo in dodici mesi è un giro di vite come non si vedeva da decenni e le imprese hanno reagito riducendo la domanda di prestiti e rinviando gli investimenti. Tutti comportamenti razionali, ma sono altrettanti colpi di freno all’attività economica. È vero che le imprese italiane sono meno indebitate rispetto a quelle di altri Paesi europei come la Francia o l’Olanda, tuttavia quel che conta non è il paragone con chi sta peggio, ma il raffronto con la situazione dei mesi scorsi.
Quel che stiamo vedendo è l’impatto del rialzo del costo del denaro deciso dalle banche centrali per combattere un’inflazione che si sta dimostrando “appiccicosa” come ha scritto il Financial Times. Dunque, si manifestano i segnali di quel fenomeno che aveva caratterizzato il periodo a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, cioè la stagflazione, il convivere di inflazione e stagnazione, con i prezzi che non scendono, non abbastanza, nonostante il bastone monetario.
Le banche centrali di Svizzera, Norvegia e Regno Unito hanno alzato di nuovo i loro tassi di interesse di riferimento la settimana scorsa, mentre il Presidente della Federal Reserve statunitense Jay Powell ha segnalato che sono probabili altri due aumenti di un quarto di punto entro la fine dell’anno. La pausa della Fed è stata breve. La Bce si riunisce il 27 luglio e prepara un nuovo rincaro. Questo andazzo, dunque, andrà avanti per tutto il 2023 e forse anche più, finché i prezzi non scenderanno verso l’obiettivo del 2%. Secondo alcuni economisti, alla fine le banche centrali potranno accontentarsi anche del 3%, ma non la pensa così la Bundesbank. Il presidente Joachim Nagel ha detto che l’inflazione è “una bestia ingorda”, quindi bisogna toglierle ogni nutrimento.
A rendere tutto più complicato c’è il mercato del lavoro. Secondo i manuali, l’aumento dei tassi contrae l’attività economica, facendo aumentare i disoccupati e riducendo la domanda. Invece la scarsità di manodopera che si manifesta soprattutto in Europa e il moltiplicarsi dei posti di lavoro in un’economia americana ancora forte (anche grazie al rimpatrio di una serie di settori produttivi), fa sì che non si veda nessun impatto significativo sul tasso di disoccupazione. È una fortuna dal punto di vista sociale, è un guaio per la politica monetaria.
Ancora una volta ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne siano scritte nei manuali.
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