Recessione. La parola tabù è stata pronunciata, viene da Francoforte, da un membro del comitato direttivo della Banca centrale europea che, fra pochi mesi, potrebbe diventare governatore della Banca d’Italia, cioè Fabio Panetta. In un’intervista rilasciata al quotidiano parigino Le Monde, non ha nascosto le insidie d’autunno. Rileggiamo le sue parole: “La nostra stretta monetaria si farà sentire nei prossimi mesi. Non si può escludere la possibilità che la domanda interna rimanga debole e ciò si traduca in una prolungata lentezza dell’attività economica o addirittura in una recessione tecnica nell’area euro”.



L’aggettivo tecnico sembra edulcorare l’asprezza del sostantivo, si tratta in concreto di una riduzione dell’attività produttiva per due trimestri consecutivi come sta accadendo già in Germania. Può darsi che sia un fenomeno passeggero, ma in ogni caso significa che l’attività produttiva si ferma, con il rischio di un ritorno della disoccupazione. È una conseguenza automatica del rialzo del costo del denaro e della contrazione del credito, un fenomeno che si sta manifestando anche in Italia, come ha detto mercoledì scorso Ignazio Visco che guiderà la Banca d’Italia fino al primo novembre.



Sia Panetta, sia Visco sono considerati colombe monetarie, tuttavia entrambi sostengono che non c’è alternativa se si vuole combattere l’inflazione. Certo, bisogna essere attenti, “risoluti, ma giudiziosi”, ha detto Panetta, per non “danneggiare inutilmente l’attività economica”. In meno di un anno i tassi d’interesse sono saliti di tre punti percentuali e mezzo, passando da meno 0,25% a più 3,35%, l’inflazione sta calando, ma è ancora superiore al 6% e, depurata dei costi dell’energia e dei beni alimentari, resta al 5,3%, quindi “vi è ampio spazio per mantenere alti i tassi per tutto il tempo necessario”, ha ribadito Panetta. L’obiettivo del 2% sarà raggiunto solo tra due anni, ma l’incertezza regna sovrana e proiezioni biennali non hanno valore scientifico, sono poco più che scommesse. Il problema non è quanto alti saranno i tassi, ma per quanto a lungo, comunque “la gente non dovrebbe preoccuparsi”. Invece si preoccupa, altroché se si preoccupa.



“Nel 2022 il reddito disponibile delle famiglie consumatrici italiane è salito del 6,2% a prezzi correnti. Il suo valore espresso in termini di potere d’acquisto di beni e servizi è tuttavia diminuito (-1,2%), per effetto dell’elevata inflazione”, calcola la relazione annuale della Banca d’Italia. Nonostante ciò, l’economia è cresciuta al di là del previsto e ha continuato ad aumentare nei mesi scorsi più di altri Paesi della zona euro. Ma non sarà così nella seconda parte dell’anno, in primo luogo perché rallenteranno le esportazioni che hanno dato un ottimo contributo alla ripresa post-pandemia (e qui l’impatto fondamentale verrà dalla stagnazione tedesca), in secondo luogo per l’impatto combinato della riduzione del reddito disponibile e del risparmio che era cresciuto come assicurazione contro le conseguenze economiche della pandemia. Gli investimenti, molto dinamici l’anno scorso, sono destinati a rallentare per colpa della stretta creditizia e di aspettative sempre più incerte. Insomma, i punti di forza dello scorso biennio, quella “rinnovata vitalità” tanto apprezzata da Visco, rischiano di non durare. E questo mette la politica economica di fronte a un dilemma di non facile soluzione.

La politica monetaria, come ha detto Panetta, cammina su un ponte tibetano che oscilla tra inflazione e recessione. La politica di bilancio a sua volta naviga tra debito e domanda interna. Per impedire che la stretta del credito a famiglie e imprese riduca la domanda interna per investimenti e consumi, ampliando così l’impatto recessivo delle scelte compiute dalla Bce, bisognerebbe confermare i sostegni e gli aiuti pubblici che in Italia sono stati superiori a quelli degli altri Paesi (3,6% del Pil rispetto a una media del 2%), ma non potendo finanziarli con più tasse verrebbero coperti da più debito. In attesa del ponte sullo Stretto, il Governo Meloni non ha intenzione di gettarsi nelle fauci di Scilla per sfuggire alle grinfie di Cariddi. La relazione della Banca d’Italia spiega che “l’impegno fiscale attualmente pianificato per il 2023 ammonta a circa il 2,5% del Pil nel Regno Unito, a oltre il 3 in Germania e l’1% in Italia”.

Come si può, allora, evitare la recessione (sperando che sia solo tecnica e duri poco)? Non si può, anche a costo di passare per pessimisti, proprio noi che abbiamo sempre cercato di guardare al bicchiere mezzo pieno, non riusciamo a negare l’amara verità. Certo, la statistica ci aiuta e la media annua sarà molto probabilmente vicina a quell’1% del quale parla il Governo, ma quel che conta è la tendenza e la curva svolta verso il basso.

Potrebbe dare una mano il Pnrr, con un impulso dal lato degli investimenti. Tuttavia, nei prossimi mesi occorre non solo ottenere i finanziamenti previsti dall’Ue, ma metterli a frutto, aprire i cantieri, assumere lavoratori nel settore privato e nell’amministrazione pubblica sempre più carente non solo di personale qualificato, come da tradizione, ma di forza lavoro a tutti i livelli. Sinceramente, è difficile credere che accadrà nei tempi e nei modi necessari a contrastare le spinte recessive. Non possiamo che sperare di venire smentiti il prima possibile.

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