Inflazione da rincari dell’energia, stretta monetaria, guerra in Ucraina e Covid: per il Fondo monetario internazionale sono le quattro tagliole che stanno azzoppando l’economia mondiale, e proprio questi lacci – avverte l’Fmi – rallenteranno soprattutto Germania e Italia, che nel 2023 finiranno in recessione, con una crescita negativa (-0,2% per l’Italia).
Anche Bankitalia ha tagliato di un punto le stime di crescita per il 2023, ma con lo stop al gas russo il nostro Pil crollerebbe a -1,5%. Le sfide da affrontare richiedono quindi una risposta sistemica, coordinata e di respiro europeo.
Ma la Ue si muove spesso divisa, come si vede anche sul fronte del caro bollette, e sull’ipotesi di varare un nuovo fondo europeo, finanziato con bond comuni, la Germania ha prima aperto un piccolo spiraglio, che poi è stato prontamente richiuso. In questo scenario all’Italia non restano che le strade delle riforme e del Pnrr per non cadere nella gelata del Pil? “La parte ‘buona’ del Pnrr non sono le riforme – ribatte Massimo D’Antoni, docente di Scienza delle finanze nell’Università di Siena –, sono gli investimenti, di cui c’è grande bisogno”, perché “il livello del debito pubblico è elevato, lo sappiamo, ma ricordo una volta di più che quello che conta è il rapporto tra debito e Pil e se il Pil va male questo rapporto può aumentare anche senza fare nuovo debito”.
Il Fondo monetario internazionale pronostica per l’Italia una contrazione del Pil dello 0,2% il prossimo anno e avverte che a livello globale “il peggio deve ancora venire”. Invece il Documento programmatico di bilancio, la cornice dei conti pubblici entro la quale si muoverà la manovra del prossimo governo, prevede una recessione tecnica fino a inizio 2023, poi la ripresa. Che cosa dobbiamo aspettarci?
La situazione è incerta e quando c’è incertezza i governi cercano sempre di sposare le previsioni più ottimistiche, così da avere un po’ di spazio di manovra. Ovviamente ci auguriamo che abbia ragione il governo e siano le previsioni del Fmi a essere troppo pessimistiche.
In un contesto internazionale così difficile e drammatico, che cosa può farci evitare una gelata del Pil?
La pandemia prima e il nuovo contesto geopolitico stanno spingendo a una ristrutturazione dell’economia mondiale, ci sono tutti i segni di un cambio di direzione rispetto alla precedente fase di progressiva integrazione dei mercati, di globalizzazione. L’altro dato è il tema dell’energia, che si collega alle politiche per l’ambiente. Sono processi che richiedono adattamenti spesso faticosi, con effetti non facilmente prevedibili. Credo che le istituzioni preposte alla politica economica dovrebbero occuparsi di sostenere chi è in condizioni di maggiore sofferenza, evitando di aggiungere shock a shock.
A ottobre la Bce alzerà ancora i tassi e molto probabilmente continuerà a farlo anche nel 2023. Non rischiamo di farci troppo male aumentando ancora il nostro debito?
Mi preoccupa quello che considero un eccesso di attenzione al tema dell’inflazione da parte della Bce. L’inflazione è un problema, ma lo è soprattutto perché erode il potere d’acquisto delle famiglie, mentre il rischio di una spirale prezzi/salari, che giustificherebbe politiche monetarie restrittive, mi sembra astratto. Un’azione monetaria troppo energica contro l’inflazione rischia di metterci al tappeto. Nella Bce è in corso il solito braccio di ferro tra falchi e colombe, dove le colombe come noi sono giustamente preoccupate degli effetti pesanti che avrà l’aumento dei tassi, non solo per il debito, ma anche per le imprese.
A proposito di Pnrr, lei è scettico sul fatto che i driver della crescita possano essere le riforme strutturali. Per quali ragioni?
Non sono certo il solo a pensare che il mantra delle riforme, che poi sono un altro modo per dire liberalizzazioni, debba essere messo in discussione. Di riforme l’Italia ne ha fatte molte, a cominciare da quelle che hanno interessato il mercato del lavoro, riducendo drasticamente il livello di protezione e aumentando la flessibilità, che per molti ha significato lavori precari e mal pagati. E non dimentichiamo le privatizzazioni: negli anni Novanta siamo stati uno dei paesi che le ha perseguite con maggiore intensità. Sarebbe forse il caso di riflettere se queste riforme abbiano dato i risultati sperati o se invece abbiano peggiorato lo stato della nostra economia.
Secondo lei?
Il lavoro precario è lavoro poco produttivo e con le privatizzazioni abbiamo perso posizioni di leadership in settori importanti. Eppure si continua a ripetere, in Italia e all’estero, che l’Italia deve fare le riforme, si dice che quelle fatte non hanno funzionato perché non sono state portate fino in fondo. Una posizione fideistica, che non può mai essere smentita, perché c’è sempre qualcosa in più che si sarebbe dovuto fare e non si è fatto. Sarebbe ora di cambiare ricetta. La parte “buona” del Pnrr non sono le riforme, sono gli investimenti, di cui c’è grande bisogno.
Per settimane si è discusso di uno scostamento di bilancio per far fronte al caro energia e lei in una recente intervista ha proposto al nuovo governo in arrivo di usare l’arma del debito. Perché? Che vantaggi ne avremmo?
Una politica di bilancio che contempli la possibilità di deficit serve anche ad assorbire gli shock e con gli effetti dell’aumento dei prezzi dell’energia stiamo subendo uno shock pesante. Purtroppo questo arriva dopo lo shock della pandemia, che a sua volta è arrivato dopo anni nei quali le politiche di austerità non avevano certo favorito la crescita. Il livello del debito pubblico è elevato, lo sappiamo, ma ricordo una volta di più che quello che conta è il rapporto tra debito e Pil e se il Pil va male questo rapporto può aumentare anche senza fare nuovo debito.
Presto il nuovo governo dovrà presentarsi a Bruxelles: la sua prima preoccupazione sarà quella di rassicurare Commissione Ue e mercati? La Meloni però ha più volte ripetuto che intende difendere in Europa i legittimi interessi nazionali del nostro paese: sarà scontro subito? E quanto rischiamo sui fronti spread, rating delle agenzie internazionali e attacchi della speculazione?
Noto che la Meloni sta seguendo un approccio molto diverso da quello del governo giallo-verde nel 2018, quando della volontà di rottura rispetto all’Europa si volle fare una bandiera, salvo poi piegarsi nel braccio di ferro con Bruxelles e di fronte alla diffidenza dei mercati finanziari. La Meloni sembra voler innanzitutto rassicurare, anche sottolineando continuità con la linea del governo Draghi.
È tattica che serve per non spaventare partner e mercati e per prendere tempo oppure realmente il nuovo governo si muoverà in sostanziale continuità rispetto alla linea del precedente?
Al momento non so rispondere, aspetto di vedere le prime mosse, a cominciare dai nomi che riempiranno le caselle più importanti del governo.
Contro l’emergenza energetica la Ue pensa a un nuovo fondo europeo finanziato con bond comuni e dalla Germania sono arrivate le prime aperture, poi però smentite. Dopo i guasti profondi arrecati ieri dalla pandemia e oggi dal caro energia, non sarebbe il caso che la Ue vinca tutte le sue resistenze e perplessità sull’eurodebito? Non lo si potrebbe fare all’interno della discussione sulle nuove regole del Patto di stabilità e di crescita?
Sarebbe il modello seguito per la pandemia adattato alla nuova emergenza energetica e sarebbe per la Ue un modo per battere un colpo. D’altra parte, i tedeschi a suo tempo giurarono che il debito comune per finanziare il Recovery fund doveva intendersi come soluzione non ripetibile. Questo susseguirsi di timide aperture e smentite riflette forse la presenza di opinioni diverse nella società e nella politica tedesca. Purtroppo l’esperienza anche recente ci dice che alla fine la Germania nei rapporti con gli altri partner tende a tornare alla sua consueta rigidità. Mi riferisco alla discussione sulle regole del Patto di stabilità: un documento di qualche tempo fa del governo tedesco non ha lasciato molte speranze a chi si aspettava una revisione profonda delle regole, anche se c’era il dato positivo di un possibile abbandono della “regole del debito”, che è per noi quella più penalizzante.
Un’ultima domanda sul Mes. Una valutazione è in corso, ma sul fondo salva-Stati che posizione dovrebbe assumere il nuovo governo: ratificarlo oppure chiederne una revisione?
Per usare la famosa battuta: la seconda che hai detto! Ma mi pare più rilevante capire cosa penserà di fare il governo. Se ben ricordo, persino il direttore uscente Regling tempo fa dichiarò che ormai la sigla Mes porta con sé uno stigma che ne rende difficile l’utilizzo. Del resto, il Mes è lo strumento che prevede in modo più esplicito una condizionalità e una sorta di commissariamento del paese in difficoltà. Il tema della sua ratifica ha dunque un alto contenuto simbolico. Credo che la Meloni non rinuncerà a utilizzarlo, questo sì, per marcare una differenza. Questo non significa naturalmente che le condizionalità non possano arrivare sotto altra forma.
(Marco Biscella)
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