Voglio pagare più tasse, please. Tra le decine di appelli arrivati in settimana ai potenti riuniti in quel di Davos, l’Oscar per il messaggio più inatteso spetta alla lettera aperta inviata da più di 200 milionari attraverso l’Ong Oxfam. “Voi – si legge – che rappresentate il potere avete il dovere di tassare di più noi ricchi. E dovete farlo subito”.
Gli squilibri nella distribuzione dei redditi, è il senso della lettera, ci stanno portando a una situazione insostenibile: a partire dal 2020, anno di pandemia, le ricchezze prodotte dalla Terra sono finite per i due terzi nelle mani dei più abbienti. “I dieci uomini più ricchi del pianeta hanno raddoppiato i loro patrimoni, laddove il 99% delle persone ha visto diminuire il proprio reddito che si sta ormai avvicinando a livelli paradossali”: dai tempi della Bastiglia non si dava il caso che la ricchezza di uno solo, vedi Bernard Arnault, numero uno di LVMH, fosse pari a quanto posseduto da 20 milioni di francesi.
Ma certi estremi, ci insegna la storia, a lungo andare sono insostenibili, dannosi e “pericolosi per tutti”, ricchi compresi. Di qui l’appello: fateci pagare più tasse. A firmarlo sono stati 200 super ricchi. Tra i loro nomi spicca quello della nipote di Walt Disney, Abigail Disney, di alcuni protagonisti di Hollywood, tra cui Mark Ruffalo, produttore e interprete di Avengers assieme a una discreta schiera di benestanti europei ed americani. A loro si è immediatamente rivolto il ministro dell’Economia francese Bruno Lemaire: “Venite da noi – ha detto -. Noi sappiamo come farvi pagare. E sia chiaro: accettiamo assegni di ogni genere”. Un appello tra il serio e il faceto che probabilmente non avrà grande seguito.
Ma anche così emerge la strana congiuntura che attraversa la società post global. Il mondo, scosso da guerre e pandemie, non vive un momento facile. Anzi. Tra segnali di recessione e rischi ambientali ogni giorno più drammatici, risuonano campanelli d’allarme di vario genere: per i più giovani, vittime dell’inquinamento e dell’assenza di lavoro perfino in Cina; per i più anziani, insidiati dall’incubo di un crack delle pensioni, dal Regno Unito alla Francia, pronta a un’insurrezione di fronte alla riforma Macron; per quelli che furono i ceti medi, baluardo un tempo della pace sociale, oggi le principali vittime dell’impoverimento generale.
In realtà, proprio a Davos è emerso che le cose non stanno proprio così. Siamo di fronte a una situazione inedita. Si parla molto di recessione, ma per la prima volta nella storia l’allarme coincide con la piena occupazione. Anzi, dopo gli anni bui si comincia a vedere una maggior forza del mondo del lavoro rispetto al capitale. Un fenomeno solo agli inizi, con molte linee d’ombra. I Big della tecnologia Usa stanno tagliando posti con il machete, senza alcuna esitazione, a partire da Microsoft ed Amazon, per non parlare di Meta. Ma questa è la diretta conseguenza del boom di assunzioni effettuate negli ultimi due anni per rispondere alla domanda della pandemia che ha spinto Amazon a superare il milione di addetti. Ovvero, è il severo giudizio di Wedbush, uno dei centri di analisi più attrezzati dell’hi tech, “l’inevitabile stretta dopo anni di spese folli, degni delle rock star degli anni Ottanta”. Ma anche così non si respira certo un clima da tragedia, ha commentato il ministro del Lavoro Usa Marty Walsh, ex sindacalista di Boston approdato per la prima volta a Davos. “Quando arrivano certi annunci – ha detto – penso subito alle difficoltà di quei lavoratori. Ma per ora non si è lamentato nessuno: quasi tutti hanno trovato subito un altro posto”.
In questa strana recessione, sia in America che in Europa, i lavoratori sono merce più rara dei posti di lavoro che restano vacanti. Mancano quelli che vengono definiti i “lavoratori di base”, un gradino sotto la manodopera altamente specializzata, un gradino sopra la manovalanza comune. Un gap che si fa sentire anche sui dossier più caldi.
L’Europa insorge sull’Ira (Investment Reduction Act) vissuto come una misura protezionistica, piuttosto che il segnale di una rivoluzione verde. Ma sia in Usa che nel Vecchio continente il vero gap riguarda i lavoratori che, compatti, stanno rifiutando le regole del gioco che si sono imposte in questi anni sotto la minaccia della disoccupazione. Vale per gli States, dove per ogni posto vacante ci sono 1,7 richieste di impiego. Vale anche per l’Europa, compresa la stessa Italia ove non è facile, dalla sanità al turismo, coprire o buchi aperti dal calo demografico.
“Non è detto che sia un fenomeno negativo”, ha commentato Andrès Glusky, economista ma anche Ceo del gruppo energetico Aes. I programmi di crescita, dice, in Usa come in Europa, avranno senso “se riusciranno a mettere denaro nelle tasche della gente comune”. E, almeno in parte, i leader del mondo degli affari sono d’accordo: Il 75% dei manager interpellati a Davos danno per probabile una recessione, ma solo il 16% ritiene che si possa contrastare la tendenza tagliando le buste paga. Ancor meno, il 6%, facendo ricorso ai licenziamenti. Mica perché i padroni siano diventati più buoni, ma perché il fattore umano, che sia un cameriere piuttosto che un addetto al computer, oggi è merce preziosa. Anzi rara.
E così, ancor più che la lettera dei milionari pro-tasse, merita attenzione l’appello ai colleghi manager di Alan Jope, Direttore generale del colosso del largo consumo Unilever: impegniamoci a garantire uno stipendio dignitoso ai nostri dipendenti in tutti i Paesi.
Dopo la pandemia, insomma, è necessario un nuovo patto sociale che consenta il rilancio dei consumi. Alla faccia della recessione che, se mai ci sarà, dovrebbe essere più breve di quanto temuto solo pochi mesi fa.
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