Le autorità che saranno chiamate a guidare il Governo del Paese dopo le elezioni non avranno vita facile, a prescindere dai numeri parlamentari delle forze politiche che daranno il sostegno al nuovo esecutivo. Dovranno fare i conti con l’avvento di una recessione economica che viene considerata probabile da numerosi centri di ricerca internazionali. Con conseguenze che si preannunciano pesanti per le economie nazionali, come la nostra, particolarmente esposte all’aumento dei prezzi energetici, e in assenza degli extragettiti fiscali assicurati dalla ripresa dell’economia che hanno garantito le coperture finanziarie ai provvedimenti di sostegno alle imprese e alle famiglie promossi dal Governo Draghi.



Inflazione più alta, prestiti più onerosi e decrescita economica portano a ritenere che con l’ultimo decreto aiuti recentemente approvato dal Consiglio dei ministri si sia raschiato il fondo del barile delle risorse disponibili senza ricorrere a ulteriori indebitamenti. Sullo sfondo ci sono due numeri da tenere in evidenza: l’aggravio della bolletta energetica del valore di 50 miliardi che si è concretizzato nel corso degli ultimi 12 mesi; i 30 miliardi di spesa pubblica aggiuntivi già di fatto ipotecati nella prossima Legge di bilancio per l’esigenza di finanziare la rivalutazione delle pensioni, l’adeguamento degli stipendi del personale pubblico, il prosieguo della riduzione del cuneo contributivo sui salari dei lavoratori per il 2023.



Bastano questi numeri per mettere in soffitta buona parte delle sconclusionate promesse elettorali circolate nei tempi recenti.

Ma questo è solo un aspetto del problema. È già iniziata una delicatissima fase di riposizionamento degli assetti produttivi tra le principali aree economiche che concorrono alla formazione del Pil internazionale. Resa più urgente per la necessità di aumentare la competitività dei sistemi nazionali nella condizione di una recessione economica internazionale. Un’evoluzione che comporterà un aumento del volume degli investimenti, una maggiore capacità di attrarre capitali e di moltiplicare gli interventi rivolti a incrementare la produttività e il reperimento di risorse umane competenti.



Purtroppo le condizioni di partenza del sistema Italia per reggere queste sfide risultano alquanto deteriorate. La mole degli aiuti pubblici messa in campo per contrastare la pandemia, le nuove risorse del Pnrr, e il forte rimbalzo del Pil nel corso degli ultimi 18 mesi, hanno generato l’illusione che ogni ordine di problemi possa, o persino “debba”, essere risolto con ulteriori iniezioni di spesa pubblica e di interventi diretti dello Stato nei meccanismi di formazione e di redistribuzione del reddito. Tutte le promesse delle coalizioni che competono nella campagna elettorale si muovono in questa direzione.

È stata persa l’occasione per riflettere sulle cause della stagnazione della crescita economica, della produttività e dei salari nel corso degli anni 2000, e ha preso piede una lettura fantasiosa relativa ai presunti fallimenti del mercato che giustifica il ritorno dello Stato nell’intermediazione e nella gestione delle risorse disponibili.

L’attribuzione della bassa crescita della nostra economia alle dinamiche della globalizzazione, oltre che essere infondata (le migliori performance in termini di contributo alla formazione del Pil, della produttività, dei salari e dell’occupazione si riscontrano nei comparti e nelle aziende esposte alla competizione internazionale) trascura scientemente i ripetuti fallimenti dello Stato nell’economia italiana, facilmente riscontrabili nel rendimento decrescente della spesa pubblica sulla formazione del reddito nazionale e per il perseguimento delle finalità sociali.

Alla costante crescita del debito pubblico nel corso degli ultimi 40 anni in rapporto al Pil (55% nel 1980, 96% nel 1990, 109% nel 2000, 134% nel 2010, 155 % nel 2020) corrisponde la riduzione progressiva della crescita del Pil nei decenni presi in considerazione (rispettivamente del 24% negli anni ’80, 17% negli anni ’90, 3,2% e 1% nei primi due decenni degli anni 2000).

La fase del boom economico, accompagnata dalla crescita demografica della popolazione, è stata caratterizzata da una quota elevata della spesa pubblica dedicata agli investimenti per dotare il Paese di infrastrutture adeguate e per favorire la costruzione di un sistema di welfare in grado di offrire sicurezza e prestazioni sociali ai ceti sociali coinvolti nel processo di trasformazione dall’economia agricola verso quella industriale. Per quanto criticabile, per le caratteristiche corporative delle prestazioni sociali, le derive emerse nella gestione delle partecipazioni statali e per la tolleranza verso l’evasione fiscale, è stato un percorso costellato da una forte crescita della ricchezza nazionale e delle famiglie.

La crisi di questo modello è diventata palese negli anni ’90 per l’incapacità di far fronte ai bisogni crescenti di flessibilità e di mobilità lavorativa con una maggiore integrazione dei sistemi formativi con i fabbisogni professionali del sistema produttivo, per i mancati sostegni alla natalità e alla crescita del tasso di occupazione per contrastare le conseguenze del declino demografico sul mercato del lavoro e sulla tenuta delle prestazioni sociali. Le mancate riforme rivolte a migliorare l’occupabilità delle persone e la conciliazione dei carichi familiari con quelli lavorativi sono state compensate dall’esasperazione delle tutele corporative, in particolare con l’utilizzo delle pensioni anticipate nella qualità di ammortizzatore sociale, e con un progressivo aumento della spesa assistenziale per far fronte ai bisogni più disparati, in assenza di priorità condivise e di una corretta valutazione dei risultati.

L’esplosione della spesa corrente, in particolare di quella pensionistica e assistenziale, è avvenuta a discapito della spesa per gli investimenti infrastrutturali, di quella necessaria a sostenere le famiglie, e per il complesso degli interventi rivolti a migliorare la qualità del mercato del lavoro.

L’inefficienza della Pubblica amministrazione è degenerata a tal punto da renderla oggetto del blocco del turnover del personale e dei tagli lineari dei costi per tutte le amministrazioni per contenere il debito pubblico. Una sostanziale presa d’atto dell’impossibilità di riformare le Pa per generare i modelli di servizio in grado di sfruttare le potenzialità delle innovazioni tecnologiche che vengono attualmente auspicati in assenza di risorse adeguate e competenti.

Nel corso degli anni 2000 tutti gli indicatori quantitativi e qualitativi del mercato del lavoro sono risultati in costante peggioramento nelle comparazioni con gli altri Paesi dell’Ue. Altrettanto è avvenuto in modo clamoroso per il complesso degli interventi sociali finalizzati a prevenire e contrastare la povertà.

Un’analisi specifica sull’impatto degli investimenti pubblici sull’andamento del Pil, svolta dalla Fondazione Edison, identifica nel dimezzamento della quota degli investimenti pubblici nelle infrastrutture la causa principale del differenziale negativo di crescita economica, rispetto alla media dei Paesi dell’Ue, nel decennio che precede la crisi Covid.

Questo sguardo d’insieme, che in più occasioni abbiamo avuto modo di approfondire nelle singole specificità, spiega la perdita delle funzioni principali dell’intervento pubblico nell’economia: quello di assicurare gli investimenti di natura pubblica rivolti a soddisfare la crescita del capitale infrastrutturale e sociale necessario per soddisfare i fabbisogni di varia natura della collettività in un’ottica di lungo periodo.

Offre anche una spiegazione al contributo distorto della spesa pubblica nella distribuzione del reddito e persino alla formazione del lavoro sommerso in relazione alla convenienza di sottodichiarare i redditi reali all’erario per poter beneficiare delle prestazioni sociali.

L’incapacità di offrire prestazioni sociali appropriate ha di fatto trasferito sulle famiglie il carico di spese aggiuntive per far fronte ai fabbisogni e alla carenza di servizi. Cosa che avviene in modo eclatante per garantire lo stile di vita di una parte rilevante delle giovani generazioni inattive, disoccupate o sottoccupate e per la cura delle persone non autosufficienti. Un’evoluzione aggravata dall’edulcorazione del rapporto tra i cittadini e lo Stato. Dall’affermazione di una tendenza individuale e collettiva a esasperare i disagi per motivare l’esigenza di nuovi provvedimenti, palesemente assecondata dalla gran parte delle forze politiche e sociali sulla base delle specifiche sensibilità elettorali.

La programmazione delle risorse del Pnrr rappresentava l’ultima chance per ripensare la funzione della spesa pubblica nella gestione di una complessa fase di transizione degli assetti produttivi per la necessità di conciliare la crescita degli investimenti con il contenimento dei costi sociali derivanti dalle riorganizzazioni produttive.

Il mancato ancoraggio degli interventi con le riforme promesse e la fine prematura del Governo di coesione nazionale sono l’ennesima dimostrazione della mancata comprensione della gravità degli appuntamenti che attendono la nostra comunità nazionale nell’immediato futuro. Con caratteristiche, e tempi, condizionati dagli avvenimenti internazionali.

Il risveglio rischia di essere brusco e doloroso. Probabilmente la condizione necessaria per far crescere la consapevolezza collettiva sull’insostenibilità di queste politiche economiche e l’urgenza di ripensare radicalmente il rapporto tra lo Stato e la società come condizione per utilizzare al meglio le risorse disponibili.

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