Il Regional Economic Outlook del Fondo monetario internazionale riguardante l’Europa non porta messaggi rassicuranti: più della metà dei Paesi nell’Eurozona sperimenterà una recessione tecnica nei prossimi mesi invernali e per Italia e Germania saranno addirittura tre i trimestri consecutivi di decrescita, a partire dal terzo di quest’anno.
Stiamo parlando di due Paesi chiave per l’industria europea, «ma tra i due – spiega Gustavo Piga, professore di economia politica all’Università Tor Vergata di Roma – c’è una differenza: la Germania soffre tremendamente per uno shock riguardante i costi che imprese e famiglie devono sostenere e ha deciso di reagire con una politica fiscale a supporto, mentre l’Italia, che sta subendo un impatto inferiore, ha scelto, almeno per ora, di non intervenire. Vedremo cosa farà il nuovo presidente del Consiglio, nel frattempo le stime del Fmi ci offrono l’occasione per alcune considerazioni sull’eredità dei due precedenti Governi che si sono succeduti dallo scoppio della pandemia».
E qual è il bilancio complessivo?
È evidente che qualcosa non ha funzionato, sia nel 2020, quando siamo stati il Paese che più è crollato a fronte di un virus che avrebbe dovuto colpire tutti allo stesso modo – e questo ha chiaramente a che vedere con le condizioni delle nostre strutture sanitarie dopo un decennio di austerità, cosa che ci ha portato a essere molto più rigidi nell’interruzione dell’attività economica rispetto ad altri Paesi -, sia dopo, dato che avremmo dovuto assistere a una ripresa decisamente più robusta.
Una forte ripresa c’è stata, addirittura del 6,7% nel 2021.
Sì, ma se guardiamo i numeri, includendo queste ultime stime del Fmi, vediamo che il periodo che va dal 2020 al 2023 si chiuderà con un ritardo pesantissimo del nostro Paese. L’area dell’euro, infatti, crescerà complessivamente del 2,4%, mentre l’Italia dello 0,7%. Se ampliamo l’orizzonte di osservazione possiamo anche renderci conto che se agli inizi degli anni Duemila, all’epoca dell’introduzione della moneta unica, l’Italia valeva il 18% del Pil dell’intera Eurozona, alla fine del 2023 varrà il 12%: una perdita clamorosa che mette alla sbarra sia le politiche economiche adottate dai Governi che si sono succeduti nel tempo, sia quelle suggerite/imposte dall’Ue al Paese che è diventato l’anello debole della catena. Spero che tutti questi possano rappresentare elementi utili di riflessione per la nuova Premier.
Da che punto di vista?
Si trova a dover avere il coraggio, la forza, l’intelligenza, la visione di invertire la rotta: occorre cambiare la politica fiscale in maniera tale che gli interessi dell’Italia, e dunque dell’Europa, siano salvaguardati.
Facciamo un piccolo passo indietro: lei ha detto che la Germania ha deciso di intervenire in aiuto di famiglie e imprese, mentre l’Italia no. In realtà, quest’anno il Governo Draghi per i sostegni ha stanziato più di 60 miliardi…
Le risorse a disposizione dopo l’interruzione dei trasferimenti a imprese e famiglie dovuti alla crisi causata dal Covid sono state soltanto parzialmente reimmesse nell’economia e in buona parte utilizzate per una riduzione del deficit che non aveva ragion d’essere in un momento di così grande difficoltà. Ricordiamo che nella Nadef è scritto che chiuderemo il 2022 con un deficit al 5,1% del Pil, mentre nel Def era previsto al 5,6%. Abbiamo, quindi, fatto molto meno della Germania. A essere generosi possiamo dire che c’è stata una minore austerità, ma sempre di austerità si tratta e questo si ripercuote in modo permanente sulla struttura dell’economia italiana con la chiusura di tantissime imprese e una minor riduzione del rapporto debito/Pil.
Uno 0,5% di deficit/Pil in più avrebbe cambiato le cose?
Non dobbiamo dimenticare i circa 20 miliardi (pari a un punto di Pil) di investimenti nell’ambito del Pnrr non spesi rispetto al previsto. Complessivamente ci sarebbero pertanto state risorse pari a un punto e mezzo di Pil, che se ben utilizzate, grazie a un moltiplicatore pari a 2, visti i tempi di crisi, avrebbero consentito un’ulteriore crescita del 3%, che ci avrebbe consentito di colmare il nostro ritardo rispetto al resto d’Europa. Purtroppo si è deciso di seguire politiche estremamente rischiose, tenuto conto che quanto meno il Paese si riprende, tanto più lo si consegna allo scontento sociale. Speriamo, quindi, che il nuovo Governo cambi le cose. Prima ancora di vedere se riuscirà a spendere le risorse del Pnrr molto meglio del precedente Esecutivo, l’attesa è per quel famoso numeretto relativo al deficit/Pil del 2023, anche perché che la previsione del Fmi sul Pil per l’anno prossimo è di -0,2% contro il +0,6% inserito poche settimane fa dal Governo Draghi nella Nadef.
Nel tendenziale della Nadef, il deficit/Pil per il 2023 è visto al 3,4% contro il 3,9% stimato nel Def. Secondo lei, il nuovo Governo dovrebbe mantenerlo intorno al 5% di quest’anno?
Io lo vorrei al 7%, ma comprendo le difficoltà sul piano della credibilità e della reputazione che il nuovo Governo può incontrare. L’importante è far capire che quel 5% di deficit/Pil non verrà usato come nel 2018 per Reddito di cittadinanza e pensionamenti anticipati, ma per investimenti pubblici e sostegni a imprese e famiglie, in parallelo con una spending review che dovrebbe essere gestita e presentata direttamente dal presidente del Consiglio per lanciare un chiaro e forte messaggio sull’intenzione di mettere mano alla qualità della spesa pubblica così da riuscire a trovare in fase negoziale con l’Europa uno spazio per un deficit che non avrebbe nulla di eccezionale data la situazione di crisi in cui ci troviamo.
Intervistato da Repubblica, Alfred Kammer, direttore dello European Department del Fmi, ha detto che “dobbiamo essere consapevoli che la politica fiscale dovrebbe essere allineata a quella monetaria sulla lotta all’inflazione, quindi non espansiva”. Cosa ne pensa?
La politica ha il pregio di non essere un ufficio studi, ma rappresentanza, anche del dolore e della sofferenza degli elettori. Non va dimenticato il fatto che il -0,2% di Pil si comporrà di un tasso di crescita positivo per certe aree del Paese e per quanti hanno un lavoro garantito e di una maggiore riduzione di reddito in certe altre aree territoriali e per persone che hanno meno tutele. Un Governo, quindi, è chiamato ad ascoltare tutti, ma a decidere poi in funzione della rappresentanza per cui è stato eletto. E ritengo che la Premier sappia il motivo per cui ha raccolto così tanto consenso e c’è un enorme scontento rispetto a ricette ripetute negli anni senza esito positivo. Dunque, ciò che conterà sarà la sua volontà politica, dove spero ci sia spazio, a differenza di quanto visto con i suoi recenti predecessori, per una rivoluzione del concetto di spesa pubblica in Italia.
(Lorenzo Torrisi)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI