Un calendario di riaperture graduali che va dall’entrata in vigore del decreto fino al 1° luglio. Quanto al “coprifuoco”, da oggi si può tornare a casa alle 23; sparirà dal 21 giugno. L’accordo sulle misure è stato ufficializzato al termine di una giornata segnata prima dalla riunione della cabina di regia e poi dal Consiglio dei ministri. “La riapertura è condizionata nelle sue modalità dalla mancanza di strumenti di rilevazione precisi ed è politica” osserva Antonio Pilati, saggista e opinionista, già commissario dell’Agcom. Ma la vera realtà che impegna tutto il nostro futuro, dice Pilati, è il debito. “Il Recovery lo aumenta, speriamo sia debito buono, perché solo la crescita ci permetterà di controllarlo. Tutto il 2022, elezioni del nuovo capo dello Stato comprese, si svolgerà sotto il segno del debito e della crescita”.



Il gradualismo del decreto è più ispirato dai dati epidemiologici o dalla politica?

Può avere alla base dei riferimenti scientifici, ma credo che sia una decisione essenzialmente politica.

Come forse è giusto che sia. O no?

La mia impressione è che il sistema di monitoraggio del virus abbia qualche falla: l’Rt non è uno strumento calibrato al meglio, perché basato a sua volta su parametri molto discussi. Per fare diversamente, dovremmo avere una strumentazione di monitoraggio della diffusione del virus più solida, più precisa. Questo forse avrebbe consentito al governo di essere più coraggioso nelle riaperture.



A proposito: due mesi fa la festa scudetto degli interisti a Milano avrebbe creato un’ecatombe, adesso invece non è successo nulla, come mai?

Significa che qualche effetto le vaccinazioni riescono ad ottenerlo.

Chi ha avuto la meglio nel condizionare Draghi? Speranza o Salvini?

Ho l’impressione che ci siano due piani. Uno è quello dei partiti, che agitano i loro temi di bandiera. L’altro è quello sul quale si muove Draghi, che tiene conto dei partiti, ma alla fine decide per conto suo.

Dunque il capo del governo riesce bene a salvare la sua terzietà.

Questa sua terzietà istituzionale è nelle cose. È nel modo in cui è diventato presidente del Consiglio, è nel fatto che la sua libertà di manovra dipende essenzialmente dall’appoggio che ha negli Stati Uniti e in Europa, più che in parlamento. È l’elemento che gli consente di non essere strattonato più di tanto.



Adesso che il decreto riaperture c’è, restano due incognite. Una è il decreto ristori, che dovrebbe dire come saranno impiegati i 40 mld dell’ultimo scostamento di bilancio. L’altra è cosa succederà dopo il 30 giugno, prima data dello sblocco graduale dei licenziamenti.

Io vedo una complicazione ancora maggiore, di natura politica. Ed è che noi stiamo facendo tanto, troppo debito. Credo che insieme alla Grecia siamo l’unico paese che pensa di utilizzare la parte a debito dei fondi europei del Recovery. E questo debito viene fatto per ovviare ai problemi contenuti nella sua domanda.

Quindi?

Il debito crea una gran mole di “compiti” dell’Italia verso l’Europa. Non è facile fare adesso riforme che mancano da cinquant’anni.

Le potrei rispondere quello che ha già detto la ministra Cartabia: niente riforme, niente soldi. Alcuno lo chiamano vincolo esterno.

I tempi sono lunghi. Approveremo delle deleghe. Metterle in atto, con l’apparato amministrativo che abbiamo, potrebbe essere molto, molto difficile.

Tutto questo cosa le fa concludere?

Che il 2022 sarà per l’Italia un anno molto complicato.

Non è una delle ragioni principali che potrebbe indurre i partiti a rieleggere Mattarella, lasciando Draghi a Palazzo Chigi fino alla fine della legislatura?

È difficile pronunciarsi sulle mosse per il Quirinale. Quel che è evidente è che una parte rilevante dell’attuale sistema politico spinge per lasciare fino al 2023 nelle mani di Draghi la gestione dei problemi che abbiamo detto.

Andrà così?

Non sarei così sicuro che sarà la soluzione vincente. I nostri condizionamenti internazionali inducono a pensare che la soluzione più probabile sia Draghi al Quirinale.

Ma nel 2022 o nel ’23?

Il presidente della Repubblica è eletto nel 2022.

Questo però vorrebbe dire scioglimento del parlamento.

Non è detto, non è affatto automatico che il nuovo presidente della Repubblica sciolga le camere. Dipende dalle modalità dell’elezione, dagli accordi tra le forze politiche.

A questo proposito, viste dall’estero, quali sono le nostre forze politiche che ispirano più fiducia e danno più garanzie?

Dipende dalla nazionalità dell’osservatore. Non è una banalità dirselo, perché se l’osservatore è in Cina avremo una risposta, se è negli Usa ne avremo un’altra e se si trova in Germania, un’altra ancora.

Lei cosa pensa?

La stessa ascesa di Draghi alla presidenza del Consiglio può essere letta come la prova che i nostri partner non hanno una grandissima fiducia negli attuali partiti. E credo che non abbiamo dato loro motivo di ricredersi.

Si può invertire la rotta?

Solo se riusciamo a trasmettere all’estero l’impressione che siamo capaci di controllare il nostro indebitamento.

Oltre che fare la gigantesca mole di riforme richieste dall’Europa.

Infatti ho la sensazione che l’impresa sia impossibile e temo che questo lo sappiano anche i nostri partner europei.

Questo non apre una prospettiva preoccupante?

Certo, ma che motivi abbiamo di essere tranquilli? Io non credo che l’asse franco-tedesco si romperà. L’idea che l’Italia possa diventare un soggetto politico alla pari di Francia e Germania in quanto il nostro premier ispira fiducia, mi sembra un po’ troppo ottimista. Il primo ministro conta, però l’indebitamento e la crescita contano di più.

Allora la nostra unica vera risorsa è la ripresa economica, non il Recovery.

Non c’è dubbio, è solo quella. Il gioco, anche politico, del 2022 dipende dalla forza della nostra ripresa; il Recovery infatti è debito, e come tale è un problema. Solo la crescita appartiene al campo delle soluzioni.

Molti ministri del governo le direbbero che i progetti del Recovery servono a produrla.

Il Piano stesso ha stime di crescita molto prudenti. La grandezza della ripresa alla fine dipende dalle imprese, dalle partite Iva, dai lavoratori.

(Federico Ferraù) 

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