Comunque andranno le cose nelle prossime settimane, il giorno del “rischio ragionato” segnerà uno spartiacque nella vita del governo Draghi. Saranno state le proteste di piazza, saranno stati i dati del contagio, in ogni caso il premier ha fatto una scelta di campo: fra rigoristi e aperturisti si è schierato convintamente dalla parte dei secondi. Non in modo acritico, si badi bene, ma con la precisa idea che l’economia per non morire soffocata debba essere riavviata, per quanto in modo graduale.



Non è un caso che a cantare vittoria sia l’ala moderata della sua ampia maggioranza, Forza Italia, Italia viva, e la Lega. Salvini la spinta per le riaperture aveva scelto di sostenerla da giorni, forse avendo intuito prima degli altri che fosse quella giusta. Che fosse inevitabile che prevalesse. L’asse Pd-M5s, che ha difeso sino alla fine il rigore predicato dal ministro Speranza, esce dalla contesa ammaccato.



E non deve trarre in inganno la difesa che Draghi ha fatto del titolare dei dicastero della Salute: lo ha voluto accanto a sé in conferenza stampa e ne ha elogiato il lavoro proprio per evitare che la smacco patito avesse conseguenze ancora peggiori. Il premier non può permettersi di rischiare: ha bisogno del consenso di tutti per varare il Recovery Plan e il nuovo decreto ristori destinato alle imprese. Per questo deve imporre la sua linea cercando un punto di equilibrio. Un colpo al cerchio e uno alla botte, avendo ben chiara la traiettoria da imporre all’azione di governo.

Che le prossime due settimane saranno decisive per il futuro del paese è cosa evidente, ed affrontata anche su queste pagine. In prospettiva, però, dopo tutto potrebbe diventare più complicato.



Fra Salvini e Letta, i due galli del pollaio draghiano, la conflittualità cresce di giorno in giorno. E a completare le fibrillazioni si aggiungono anche fattori esterni, come il rinvio a giudizio deciso per il leader leghista a Palermo per il caso dello sbarco ritardato dei migranti raccolti dalla nave spagnola Open Arms. Per il centrodestra nessun dubbio: un processo politico. Intorno a Salvini si radunano tutti, Forza Italia, la Meloni, Toti, De Poli, persino Rotondi. Troppo evidente la disparità di giudizio con l’altro procedimento in corso, quello per il simile caso di Nave Gregoretti, a Catania, che va verso il non luogo a procedere. Troppo clamoroso il riscontro con le intercettazioni di Luca Palamara, in cui si dice che Salvini ha ragione, ma va perseguito comunque. Non a caso la difesa dell’ex ministro dell’Interno pensa di chiamare a testimoniare proprio l’ex presidente dell’Anm. Un processo politico che rischia di trasformarsi in uno scontro che poco ha di giuridico, anche perché fra le fila leghiste c’è chi adombra il sospetto che si voglia arrivare a una condanna di primo grado che renda Salvini incandidabile alle elezioni, che per questo vanno rimandate il più possibile. La legge Severino come una spada di Damocle.

Certo, di fronte a una bella fetta di Italia Salvini passerebbe per vittima dell’ennesima persecuzione delle toghe rosse, novello Berlusconi. Ma per il governo vorrebbe dire essere sottoposti a continue scosse telluriche. Uno sciame sismico logorante ed insidioso. La freddezza con cui Pd e 5 Stelle hanno accolto la notizia del rinvio a giudizio deciso a Palermo (“La legge deve essere rispettata da tutti”, ha sibilato il ministro Orlando) non promette nulla di buono per il governo.

Ci vuol poco a immaginare mesi di polemiche intorno all’operato della magistratura, sempre più debole e sempre meno credibile. Non solo l’orientamento che appare difforme fra le procure di Palermo e di Catania, ma anche la diversità di trattamento, a confronto, ad esempio, con l’inchiesta di Bergamo sulle forniture di dispositivi di protezione e respiratori, che, a partire dall’ex commissario all’emergenza, Domenico Arcuri, allunga la sua ombra su nomi eccellenti della sinistra, come D’Alema, mediatore con la Cina, passando per Ranieri Guerra e i piani inviati all’Oms.

Ancora una volta la variabile giudiziaria rischia di condizionare pesantemente il gioco democratico. Draghi farebbe bene a tenerlo presente, e accelerare con le cose che deve assolutamente fare. Un equilibrio tanto precario non può sopravvivere oltre il prossimo gennaio.

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