Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) rappresenta una opportunità di rilievo per il nostro Paese, soprattutto per le significative risorse che mette a disposizione (circa 224 miliardi in 5 anni). Tra i settori che stanno già beneficiando e che beneficeranno delle opportunità offerte dal PNRR vi è la sanità, per la quale sono previsti circa 20 miliardi di euro, 4 mld per ognuno dei 5 anni del programma: una quota che non risolve certo le tante problematiche da cui è afflitto il settore ma è una boccata d’aria che permette di portare a compimento molte iniziative che senza questi finanziamenti non avrebbero di certo potuto vedere la luce.
Periodicamente viene effettuata una verifica di come il programma sta procedendo e periodicamente veniamo informati di quante case di comunità sono state aperte, di quanti ospedali di comunità sono stati attivati, di quante COT (Centrali Operative Territoriali) sono in funzione, di quanti soldi sono stati spesi; oppure di quante di tutte queste attività erano previste ma non sono state ancora realizzate.
Il giudizio è sostanzialmente positivo per alcuni (e in particolare per i diversi esponenti del Governo) e invece critico per altri, che reclamano soprattutto il ritardo nella realizzazione quantitativa delle iniziative o l’accento sul semplice riadattamento murario delle strutture senza che poi segua l’attivazione completa delle attività sanitarie (e sociosanitarie) previste. Anche chi scrive ritiene che si sia data molta enfasi alla ristrutturazione di edifici che erano nelle disponibilità degli enti pubblici del SSN e non (o poco) utilizzati e invece poca attenzione al loro effettivo contenuto sanitario, anche perché le strutture sono importanti e necessarie, ma poi per il loro funzionamento servono gli uomini (medici, infermieri, …) e qui è ancora oggi il punctum dolens del PNRR.
Se però non ci si ferma all’aspetto semplicemente strutturale e si cerca di comprendere il messaggio programmatorio fondamentale lanciato dal PNRR al SSN, allora emerge il punto critico di maggiore rilievo che la eccessiva e (quasi) esclusiva attenzione alla rimessa in carreggiata delle strutture non permette di cogliere e che è, purtroppo, trascurato anche da tanti commentatori. La questione è stata ben segnalata da Paola Binetti, che in un suo recente contributo su queste colonne scriveva: “Obiettivo principale del PNRR avrebbe dovuto essere quello di attivare delle riforme strategiche e non degli interventi isolati … la riforma della assistenza territoriale avrebbe dovuto definire un nuovo modello organizzativo del SSN per creare una sanità più vicina alle persone”.
Possiamo discutere se invece di x case di comunità ne abbiamo aperte y, e se con queste y abbiamo (o non abbiamo) raggiunto il target previsto, ma in questo modo perdiamo di vista l’opportunità e lo stimolo principale costituito dal PNRR, e cioè la possibilità di lavorare per produrre una riforma sostanziale dell’assistenza territoriale, vero punto debole del nostro SSN.
Qualcuno obietterà dicendo che è stato predisposto il Dm 23 maggio 2022 n. 77 ma, al di là del fatto che l’applicazione di tale decreto è disattesa quasi ovunque, è bene osservare che esso non rappresenta una riforma pensata della sanità territoriale, ma asseconda semplicemente la necessità di individuare standard strutturali, tecnologici e organizzativi, uniformi su tutto il territorio nazionale, per la realizzazione delle strutture (case e ospedali di comunità, COT) previste dal PNRR: utile, certo, ma è ben lontano dall’essere una riforma della assistenza territoriale.
Qualcun altro dirà che il PNRR non è terminato e che c’è ancora tempo per arrivare alla proposta di una riforma: vero, ma ad essere sinceri non si vedono le tracce dei passaggi che servono per arrivare ad una proposta articolata ed il rischio di un fallimento del PNRR in proposito incombe.
Forse che l’assistenza territoriale non sia ritenuta così problematica come questo contributo sottende, e che le strutture previste dal PNRR siano una proposta adeguata a ciò che la sanità del territorio richiede? Chi scrive ritiene che le due domande debbano ricevere come risposta due no: vediamo perché.
Sulla prima domanda. Alle osservazioni critiche puntuali sempre di Paola Binetti nell’articolo citato si aggiungono (ma è solo l’ultimo esempio) le considerazioni proposte dalla FADOI (Federazione delle Associazioni dei Dirigenti Ospedalieri Internisti), secondo la quale dalle proprie indagini emerge da una parte che ben tre ricoveri su dieci sarebbero evitabili “con una migliore presa in carico dei pazienti da parte dei servizi territoriali”, e dall’altra che “c’è un blackout di comunicazione tra ospedali e servizi sanitari territoriali, (…) che si consultano quando un paziente è ricoverato in appena il 15% dei casi”. In altre parole, l’assistenza ospedaliera si farebbe carico di surrogare in maniera quantitativamente rilevante le mancanze della sanità territoriale, con la quale colloquia poco ed è costretta ad ospitare molti ricoveri (20% secondo FADOI) di natura sociale più che sanitaria.
Sulla seconda domanda. Premesso che le strutture previste dal PNRR sono benvenute in quanto portano l’assistenza sanitaria più prossima al luogo del bisogno e cioè al cittadino ed al suo domicilio, la complessità dell’assistenza territoriale, il superamento della logica a prestazione e l’adozione della presa in carico del paziente cronico e fragile, la collaborazione tra assistenza sanitaria e sociosanitaria (con il possibile sconfinamento nel sociale), la multidimensionalità dell’approccio richiesto, e così via, fanno capire in modo molto evidente che l’offerta di strutture previste dal PNRR non potrà essere in grado di rispondere compiutamente alle esigenze della sanità territoriale, comprese l’affronto della non autosufficienza e della assistenza al domicilio.
È per questi motivi che la sfida principale offerta dal PNRR non consiste nella apertura di strutture e nell’erogazione di prestazioni, per quanto utili (sempre secondo FADOI, ad esempio, le strutture previste dal PNRR sarebbero in grado di evitare non più del 20% dei ricoveri impropri che FADOI attribuisce alle carenze dell’assistenza territoriale), bensì nella progettazione complessiva di un modo diverso dall’attuale di fare assistenza sanitaria e sociosanitaria territoriale.
Appare pertanto urgente da una parte che la politica si accorga che per il momento sul PNRR si è presa una scorciatoia che rischia di portare il PNRR stesso, per la parte sanità, verso il suo fallimento e dall’altra che il ministro della Salute (ed il suo ministero) attivi quelle iniziative (tavoli di lavoro, consultazione di esperti, …) che possono portare (entro il periodo di vigenza del PNRR) alla formulazione di una proposta complessiva di riforma dell’assistenza territoriale.
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