L’insorgere prepotente sulla scena politica del tema dell’autonomia differenziata, con le rumorose ed agitate reazioni e contrapposizioni che stanno caratterizzando il dibattito tra favorevoli e contrari, ha di fatto posto in secondo piano, se non già relegato nel dimenticatoio, altri elementi della vita sociale del nostro Paese. Per quanto riguarda la sanità, ad esempio, è passato in sordina un importante documento che riguarda la “messa a terra” (come si dice adesso) del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), cioè quell’insieme di attività che dovrebbero dare un volto nuovo alla assistenza territoriale.



Cosa ci siamo persi? Il DM 77 del 23 maggio 2022 (Regolamento recante la definizione di modelli e standard per lo sviluppo della assistenza territoriale nel servizio sanitario regionale) nel definire modelli e standard per le cosiddette “case di comunità” (CdC) ha previsto due forme di questa realizzazione: la CdC “hub” e la CdC “spoke” integrate in una rete di assistenza territoriale costituita da plurimi elementi (case di comunità, ospedali di comunità, centrali operative territoriali, medicina di base, …) per i quali ha stabilito degli standard da applicare uniformemente su tutto il territorio nazionale. A seguito di questo decreto, AGENAS (Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali) ha istituito un gruppo di lavoro multidisciplinare e multiprofessionale per definire delle linee di indirizzo per l’attivazione e l’attuazione delle CdC “hub”, gruppo di lavoro che nel mese di giugno 2024 ha partorito il documento che si intende qui discutere (Linee di indirizzo per l’attuazione del modello organizzativo delle case della comunità hub).



Sorvolando su aspetti che meriterebbero un commento (esempio: chi è stato chiamato a far parte del gruppo di lavoro) ma che ci porterebbero lontano dagli obiettivi generali che questo scritto si propone; ricordando (almeno per uniformare il linguaggio) che per il DM 77/2022 la casa della comunità “è il luogo fisico e di facile individuazione al quale i cittadini possono accedere per bisogni di assistenza sanitaria, socio-sanitaria a valenza sanitaria e il modello organizzativo dell’assistenza di prossimità per la popolazione di riferimento”; e non volendo entrare nel merito di una discussione (che sarebbe utile e necessaria ma è purtroppo tardiva) che valuti se la proposta della casa della comunità rappresenta davvero una soluzione per la assistenza territoriale; ebbene, prima di affrontare il contenuto del documento si impongono una considerazione di realtà ed una di metodo.



La realtà. È riconosciuto che l’Italia è il Paese dei mille campanili, dei tantissimi piccoli comuni, della enorme quantità di dialetti diversi, di accenti, di abitudini e tradizioni, e di mille altre cose che documentano la straordinaria varietà che ci caratterizza. Si può pensare quello che si vuole a proposito di questa eterogeneità e che essa possa/debba essere compressa o espansa, ma prima di tutto si deve prendere atto della sua esistenza e valutare come la proposizione o imposizione di standard uniformi (e spesso rigidi, come quelli contenuti nel DM 77/2022 e nelle successive linee guida) possa proficuamente interagire con queste diversità dando luogo a soluzioni efficaci e praticabili.

Il metodo. L’approccio agli standard di cui al DM 77/2022 e successive linee guida ripercorre e ripropone lo stesso approccio tentato, nel contesto della assistenza ospedaliera, dal DM 70 del 2 aprile 2015 (Regolamento recante definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi alla assistenza ospedaliera), un’esperienza da quasi tutti giudicata fallimentare e che a quasi 10 anni dalla sua deliberazione non solo non ha dato luogo ad alcuno standard, ma non ha saputo incidere in alcun modo sulla struttura dell’assistenza ospedaliera (fatta salva qualche mosca bianca che ha cercato di chiudere qualche punto nascita con meno di 500 parti all’anno).

È pensabile che in un contesto ancora più variegato e privo di modelli effettivi come è l’assistenza sanitaria territoriale in Italia possa avere successo l’approccio agli standard che è fallito per l’assistenza ospedaliera? Dovesse capitare, bisognerebbe ricorrere alla categoria del miracolo, ma non sarebbe il tipo di intervento che deve essere richiesto a chi ha compiti di programmazione sanitaria.

Correttamente il documento di AGENAS ci avverte che la CdC “hub” si inserisce in un territorio in connessione con servizi sanitari di diversissima natura e dimensione, tra i quali elenca: “le CdC spoke, le Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT), gli ospedali per acuti, i poliambulatori e i consultori, gli ospedali di comunità, le centrali operative territoriali, la centrale operativa 116-117, l’unità di continuità assistenziale (UCA), le farmacie dei servizi, i punti unici di accesso (PUA), i servizi sociali dei comuni, le associazioni del terzo settore, scuole, palestre, centri culturali e sportivi, ovunque si possa generare salute individuale e collettiva”.

Non solo, ma se la CdC “hub” (come indicato sempre dal documento AGENAS) deve diventare “il luogo nel quale si organizza e ricompone l’insieme dei servizi e delle attività offerte da tutti gli attori che si prendono cura della salute delle persone e della comunità nel suo territorio di riferimento”, ed è “caratterizzata da un modello organizzativo di approccio integrato, multidisciplinare, di prossimità e di proattività”, si può pensare che questa CdC debba essere uguale dappertutto, al punto da avere (ad esempio) un numero uguale e prestabilito di figure professionali (7-11 infermieri di famiglia o comunità, 1 assistente sociale, 5-8 unità di personale di supporto), di strumentazioni medicali e dispositivi medici (di cui viene presentato dettagliato elenco), e così via? Certo che si può pensare, ed anche scrivere, come ha fatto il gruppo di lavoro coordinato da AGENAS, ma dopo non ci si deve stupire se nessuno segue l’indicazione oppure ognuno la realizza a modo suo (ergo: chi se ne frega degli standard).

D’altra parte, o la rete territoriale (e la CdC “hub” in questa) nasce dal basso, si configura in funzione delle esigenze e dei bisogni di un territorio, crea collegamenti adeguati tra tutti i soggetti presenti, stabilisce sinergie e coinvolgimenti, adotta la prossimità e si interfaccia con le diverse forme e strutture della assistenza primaria (MMG, PLS), valorizza la sussidiarietà e le associazioni dei pazienti, e molto altro ancora, oppure si scrivono tante dettagliate pagine di carta sugli standard e sulla uniformità che danno formale realizzazione agli impegni contenuti nel PNRR ma la CdC “hub” non assume consistenza e la assistenza territoriale rimane al palo.

Così suggeriscono gli esempi positivi che si cominciano a vedere, ma su questo sarà opportuno ritornare.

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