Con l’incontro “Il cambiamento possibile: la sanità oltre il Covid” il Meeting per l’amicizia tra i popoli (Rimini, 20 agosto, ore 19) ci invita, alla presenza attesa del ministro Speranza, a “prendere in esame la situazione della sanità nel nostro Paese, mettendo in luce i cambiamenti prodotti dall’emergenza sanitaria, facendo emergere i tentativi e le esperienze che possono indicare nuove strade per affrontare il tema dell’assistenza sanitaria”.
Prendendo le mosse dal recente volume Dal Covid alla sanità di domani pubblicato a cura del Dipartimento Salute della Fondazione per la Sussidiarietà proviamo ad anticipare le tematiche di maggiore rilievo che ci aspettiamo di ascoltare e che ci indichino perché vale la pena di mettere ancora la sanità al centro dei nostri pensieri e delle nostre riflessioni e verso dove dobbiamo andare.
Corre innanzitutto l’obbligo di ricordare il magistrale insegnamento di Papa Francesco quando, di fronte ad una società che a seguito del virus tanto stava pagando (e sta ancora pagando) innanzitutto in termini di vite e di sofferenze, e ad una sanità per cui la pandemia ha avuto l’effetto di uno tsunami del tutto non previsto, disse che “peggio di questa crisi c’è solo il rischio di sprecarla”. Cosa deve fare la sanità per non sprecare una grande occasione per ripensare al suo ruolo ed ai suoi compiti?
Il primo pensiero va necessariamente ai suoi uomini (non intesi come genere ma come persone), che non abbiamo esitato a definire ”eroi” ma del cui eroismo ci siamo presto dimenticati. Alcuni hanno fisicamente perso la battaglia contro il virus; altri hanno raggiunto la desiderata pensione ma li abbiamo richiamati in servizio attivo per combattere la battaglia contro il Sars-Cov-2; altri ancora (qui non interessano le motivazioni) hanno scelto strade al di fuori della sanità. Il punto, purtroppo o fortunatamente, è che sono gli uomini che fanno funzionare le organizzazioni, a tutti i livelli, ed oggi nella sanità del nostro paese da una parte gli uomini, numericamente parlando, mancano già per le attività in corso e dall’altra con le nuove opere previste in applicazione del Pnrr (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) ci vorrebbero anche figure professionali che al momento non ci sono e che oltre a mancare dovranno pure essere formate per i nuovi compiti previsti dalla normativa (Dm 77 del 23 maggio 2022, ad esempio).
Dal punto di vista programmatico generale abbiamo capito che la frase più citata in questi ultimi 50 anni di sanità, “It’s time to close the books on infectious diseases, declare the war against pestilence won, and shift national resources to such chronic problems as cancer and heart disease” (“È ora di chiudere i libri sulle malattie infettive, dichiarare vinta la guerra contro la pestilenza, e spostare le risorse nazionali verso problemi cronici come il cancro e le malattie del cuore”) è da considerare corretta quanto alla necessità di affrontare con forza il tema della cronicità, ma del tutto errata quanto alla conclusione di avere sconfitto le malattie trasmissibili. La situazione di oggi ci porta a dire che, con forme organizzative tutte nuovamente da studiare, il prossimo futuro dovrà prevedere una sanità capace di affrontare sia la cronicità che le malattie infettive, e che dovendo far fronte contemporaneamente ad una domanda di cronicità e ad una domanda di urgenza, quest’ultima con modalità e tempistiche non facilmente prevedibili, la struttura sanitaria, ospedaliera in particolare, dovrà essere investita dal tema della flessibilità organizzativa così da permettere (in funzione delle diverse esigenze che si dovessero presentare) il rapido spostamento di risorse (di tutti i tipi: letti, personale, strumenti, …) da un bisogno ad un altro: proprio il contrario della rigidità che caratterizza oggi i nostri ospedali.
Altrettanto esplicite sono risultate le difficoltà dell’assistenza territoriale: a parte l’assenza di un modello condiviso di cura, evidenti sono la mancanza di reti di prossimità, le difficoltà dell’integrazione e collaborazione tra sanità ed assistenza, i tanti pensionamenti già avvenuti o in previsione a breve (esempio: Mmg) e la mancata assunzione di personale sostitutivo, la necessità di nuove figure professionali, le opportunità fino ad oggi poco sfruttate dai professionisti di operare come gruppo, lo scarso utilizzo della telemedicina e delle nuove tecnologie rese disponibili dal mondo della informazione e della digitalizzazione, e via di questo passo. Arriverà attraverso il Pnrr una soluzione adeguata? È per lo meno lecito avere qualche riserva.
Ripetute grida di dolore, e non senza motivo, si sono alzate in questi due anni da parte degli esperti di quei settori che per via della pandemia hanno visto sacrificate e penalizzate le proprie attività: sono soprattutto gli oncologi ad avere alzato la mano lamentando il ritardo nelle (se non addirittura la rinuncia alle) cure che ha interessato molti cittadini, con l’ovvia preoccupazione che tale ritardo/rinuncia possa esitare in un gravame sanitario non sopportabile soprattutto dai soggetti più fragili. I segnali di questo disagio si rendono già evidenti, così come significativi appaiono gli effetti indotti dal contesto pandemico su gruppi specifici di popolazione: gli anziani per un verso (soprattutto per gli effetti più gravi), ed i giovani per l’altro (sono ormai frequenti i contributi che descrivono il disagio giovanile). Non è un caso che proprio in questi ultimi mesi molte regioni (Emilia-Romagna, Lombardia, Lazio, Sardegna, …) hanno proposto diverse attività per affrontare i tempi di attesa, forse il tema che esprime la preoccupazione più frequente e pressante che segnalano i cittadini.
Il ripresentarsi di episodi di importante diffusione di malattie infettive non ci deve però distogliere da quella che ad oggi rimane l’esigenza fondamentale dei servizi sanitari del mondo occidentale: la necessità di affrontare con metodi e strumenti idonei il tema della cronicità, ed in particolare della cronicità polipatologica. I tentativi in corso in alcune regioni (Toscana, Emilia-Romagna, ad esempio) sono spesso limitati solo a poche patologie (diabete, ictus, ipertensione, scompenso, …) e non presentano le caratteristiche di un approccio globale, approccio per il momento proposto solo da Regione Lombardia ma che trova parecchie resistenze nella sua diffusione.
E l’elenco dei temi potrebbe continuare a lungo perché la sanità ha bisogno di affrontare ulteriori domande sul suo futuro come le seguenti: ha ancora senso la separazione oggi in atto in molte regioni tra sanità e assistenza (socio-sanità)? quale ruolo dovranno giocare la medicina di base e quella territoriale? che funzione sarà richiesta agli ospedali di domani? di quale organizzazione sanitaria (luoghi, strumenti, competenze…) avremo bisogno per affrontare le prossime sfide sanitarie ed assistenziali? Saprà la sanità imbroccare la strada della sussidiarietà?
La sanità (e aggiungiamo: l’assistenza sociosanitaria) è materia intrinsecamente sussidiaria, non tanto perché lo dice la legge (questa, semmai, è una conseguenza) ma perché è vicina alla persona, crea legami di prossimità attraverso il bisogno di cura e di assistenza, richiede la presa in carico del singolo paziente in un contesto che favorisca una adeguata risposta alle necessità di ciascuno, tutti elementi che trovano nell’approccio sussidiario il giusto contesto per la loro migliore realizzazione. Come ha scritto, a gennaio 2021, la Fondazione per la Sussidiarietà nel primo numero della rivista trimestrale di cultura civile Nuova Atlantide “la partita sanitaria rappresenta un’opportunità storica e da non mancare per la cultura sussidiaria”: ci auguriamo che questo approccio trovi anche nell’incontro di Rimini ulteriore sostegno ed approfondimento.
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