“Le prescrivo un antibiotico, non si sa mai”. “Dottore non mi dà l’antibiotico?”. Tutti facciamo ricorso agli antibiotici, ma quanto questo modifica un ecosistema in cui gli elementi sono in relazione reciproca?
Negli ultimi anni operatori sanitari e pazienti insieme sono diventati, certo inconsapevolmente, dei selezionatori di ceppi di microorganismi sempre più resistenti alle cure verso i quali le armi disponibili iniziano a essere inefficaci. L’antibioticoresistenza oggi è uno dei principali problemi di sanità pubblica a livello mondiale con importanti implicazioni sia dal punto di vista clinico (aumento della morbilità, della mortalità, dei giorni di ricovero, possibilità di sviluppo di complicanze, possibilità di epidemie), sia in termini di ricaduta economica per il costo aggiuntivo richiesto per l’impiego di farmaci e di procedure più onerose, per l’allungamento delle degenze in ospedale e per eventuali invalidità. Di conseguenza devono essere prese in considerazione le diverse prospettive di pazienti, operatori, sistema sanitario nel suo complesso.
L’ultimo decennio ha ancor più evidenziato uno iato tra paziente “ideale” e paziente “reale”. Quest’ultimo si fida ma con riserva ed esige (fatta salva una propria percezione di ciò che gli sembra essere dovuto a tutti i costi) di risolvere il problema presto e bene, senza complicanze, ma con una relazione sempre più meccanicistica (nei fatti più che nelle intenzioni) con gli operatori sanitari, specie se “pubblici”.
Certamente questo atteggiamento, del quale non diamo certamente una valutazione morale, è stato sempre più alimentato da driver che mutuano una conoscenza soprattutto dai social media che, apparentemente funzionale alla riduzione dell’asimmetria informativa paziente/operatore sanitario, sempre più ha generato fenomeni di analfabetismo funzionale esitanti in scelte non dettate dalle evidenze scientifiche, quanto dalla reputation mediatica con le conseguenze che soprattutto in questo periodo pandemico sono sotto gli occhi di tutti.
Nel campo della terapia antibiotica, che è estremamente influenzata dall’ecosistema uomo/ambiente nell’efficacia della risposta al trattamento e nello sviluppo di resistenze, un approccio disordinato e sostanzialmente empirico nella prescrizione può arrecare danni irreparabili al soggetto e alla collettività, per esempio nell’utilizzazione di principi attivi sovradimensionati rispetto allo scopo. Anzitutto “ultima generazione” per l’antibioticoterapia non corrisponde necessariamente a efficacia certa, mentre il targeting e la personalizzazione del trattamento, analogamente alle cure oncologiche, risultano essere strategicamente efficaci per quella singola persona in funzione della sua condizione specifica.
Certamente se esiste un “obbligo di mezzi” e non di risultato è altrettanto vero che ai pazienti vanno spiegate le ragioni delle scelte terapeutiche, di tempi e metodi di somministrazione. Gli operatori, conseguentemente, soffrono il disorientamento che deriva dal mutare del tipo di domanda e dall’incrinarsi del rapporto cosiddetto fiduciario.
Operatori sanitari e pazienti paiono vivere un rapporto che sembra sempre più orientarsi a una formula quasi consulenziale. E chi fornisce gli strumenti di cura che ruolo ha nella dinamica di approccio alla salute della persona? Farmaci, device per la diagnosi e il trattamento di problemi di salute più o meno complessi sono sempre più determinanti per un risultato che restituisca valore in termini di guadagno di salute al paziente. L’abbiamo visto “almeno” negli ultimi tre anni, come capitalizzazione finalizzata allo scopo della vaccinazione di massa e dell’introduzione di modalità di cura per una sindrome fino ad allora sconosciuta determinata dal coronavirus. Il know-how multidisciplinare del mondo dell’industria, magari accumulato per altre aspettative, è stato determinante nella cura agli ammalati.
Mai come oggi, quindi, è necessaria un’educazione di tutti perché le scelte siano dettate dalle evidenze scientifiche e un’alleanza di pazienti, operatori sanitari e mondo delle imprese.
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