Che le nuove misure dell’Unione Europea siano il frutto di una trasformazione in corso negli equilibri di potere del capitalismo europeo è confermato da segnali che da deboli si fanno sempre più evidenti e chiari. Il primo è quello che viene di nuovo dalla Germania, frutto della situazione delle sue banche cooperative Sparkasse, che sono 378 e che amministrano, con le quattro Landesbank, 2.220 miliardi di euro, ovvero più di Bnp Paribas, Credit Agricole, Santander e Deutsche Bank (che amministrano dai 2.000 ai 1.300 miliardi di attivi) e delle francesi Société Générale e Bpce e del tedesco Cooperative Group (tutti con 1.300 miliardi di attivi amministrati).
I rapporti di queste banche con gli organismi di regolazione europei, l’Eba, e anche con la vigilanza tedesca, sono tesissimi per la situazione gravissima in cui tutte queste banche versano anche, e non solo, per non essere mai addivenute a quelle riforme della loro governance richieste e imposte, invece, con un rigore sempre sospetto a tutte le altre banche dell’Ue e che alle stesse erano sempre state risparmiate. Ora il fronte della Cdu e di parte della Spd, che su queste banche si è costruito, beninteso anche con il benestare dell’industria e dell’economia tedesca, si è rotto ed è iniziato un regolamento di conti senza pietà quale mai si era visto prima in Germania.
I primi bagliori, lo si ricordi, si erano già visti con le lotte con Annegret Kramp-Karrenbauer e con i bavaresi della Cdu e della Spd che reclamavano e reclamano con sempre più impazienza – con la Confindustria tedesca – l’abbandono delle regole dell’austerità. In due direzioni diverse, certo: da un lato la destra di Schäuble e di Merz (Cdu) e dell’AfD, che invocano un più duro nazionalismo sostenuti anche dalle sentenze della Corte costituzionale tedesca sia in merito al Mes, sia in merito alla recente polemica con la Bce e i piani di Quantitative easing; dall’altro lato, parte della Spd e della maggioranza dell’industria tedesca. La Germania, come ho detto più volte, lacerata dal liberismo senza remore, ritrova le sue storiche divisioni tra Prussia e città anseatiche da un lato e Baviera alleata storicamente dell’Italia e della Spagna dall’altro, che oggi non hanno più armate e mercenari che divengono re, ma industrie e servizi essenziali per il capitalismo tedesco del meridione teutonico e che non possono essere distrutte senza distruggere anche l’industria tedesca.
La stessa cosa capita in Spagna, dove la disgregazione continua. Dopo le condanne a diversi anni di carcere ai separatisti catalani, le divisioni non sono finite: tra Podemos e i socialisti di Sanchez e tra il Pp e le sue faglie come Ciudadanos, per finire con i neofascisti di Vox sempre più attivi e centralisti. I Baschi sono ancora immobilizzati dalla sconfitta – politica prima che militare – dell’Eta, ma è una quiete prima della tempesta.
Sul bimbo meccanico neogollista Macron – il più colto degli artifici “post-umani” che hanno sostituito su scala europea i partiti di massa – e la douce France è scesa una crisi di legittimazione terribile, a cui si fa fronte ora con la proposta elaborata dalla Commissione presieduta da Ursula von der Leyen e di cui oggi si discute. Se non si comprende che la proposta di Recovery Fund proviene da un’Europa in cui il capitalismo è impegnato in una guerra affannosa per la sopravvivenza per la crisi pandemica, non si comprende il senso della tragedia che si avvicina.
Pensate all’acciaio e al destino cui una classe tecnocratica e politica europea (così si autodefinisce) l’ha ridotto. Il caso Ilva ne è l’emblema, con la sua definitiva scomparsa dopo averla affidata all’unico gruppo mondiale che ricercava senza mascheramenti di ridurre la sovrapproduzione in cui era immerso, tanto che andrà chiusa… facendo sì che la siderurgia ad acciai speciali migliore del mondo non possa partecipare alla gara per la futura ricostruzione mesopotamica, grazie alla concorrenza sleale degli acciai cinesi e degli altri produttori turchi ed europei. Il solo Massimiliano Salini, non a caso cremonese e giustamente impegnato nella difesa del suo territorio, l’ha recentemente con coraggio ricordato, questo vero e proprio dramma che non interessa più nessuno e che cova una tragedia umana, sociale, ambientale, politica, terroristica.
Ma veniamo al parto del bimbo deforme, poverino, battezzato Next Generation EU. Frutto del travaglio della Commissione, potrà essere attivato – lo si legge solo sul Wall Street Journal – il primo di gennaio del 2021, quando la cenere si sarà posata.
Vediamo di fare chiarezza nella tragedia. L’Ue ricercherà sui mercati mondiali circa 750 miliardi di euro. Li prenderà a prestito. Di questi, come si è detto, 500 saranno erogati come sussidi e garanzie. Altri 250 saranno prestati agli Stati dopo negoziazioni che dilanieranno l’Europa, piuttosto che unirla – purtroppo – come pensano, se pensano, le anime belle.
Si dice che l’Italia otterrà, grazie agli accordi informali già stipulati, circa 80 miliardi di sussidi e 90 di prestiti. Quello che non dice nessuno (salvo l’attento e severo professor Perotti a cui vanno resi onore e gloria) è che anche i sussidi saranno raccolti dall’Ue a debito e non saranno regalati a nessuno perché andranno ripagati con finanziamenti degli Stati dell’Ue. Come? Si è ancora incerti, ma le nuove tasse non potranno mancare e saranno parametrate al Pil degli Stati medesimi con proporzionalità alle quote nazionali che concorrono a formare il bilancio dell’Ue.
Si dovrebbero ottenere circa 17 miliardi di sussidi (non tantissimi!) nel corso dei quattro anni a partire dall’1 gennaio del 2021, con un esborso molto diluito nel tempo. Certo c’è grande differenza nei tassi: l’Ue emette debito a tassi inferiori a quello di ogni singolo Stato, ma la sostanza dell’indebitamento rimane, risparmiando circa, io credo (con il buon Perotti), un miliardo, un miliardo e mezzo l’anno. Il problema forse ancora più grande, vista l’incapacità assoluta delle attuali classi politiche di gestire la cosa pubblica, è il fatto che il Governo, i Governi presenti e futuri, dovranno amministrare una quota non indifferente del Pil in quattro anni con piani in parte indicati dalla Commissione, ma in parte affidati alle classi politiche attualmente incaricate di governarci.
Se si pone mente a quale sia lo stato di frantumazione e divisione profonda in cui è caduto lo Stato italiano devertebrato e patrimonializzato sia da gruppi di interessi, sia dagli ordini dello Stato (in primis l’ordine giudiziario trasformatosi in potere che promana da ordinamenti di fatto in continuazione annichilendo la stessa Costituzione repubblicana nel sonno della Corte costituzionale, a differenza di ciò che accade in Germania e in Francia e in Spagna) si comprende quale rischio corra la cosa pubblica per effetto dell’aprirsi di una cornucopia che invece che darci, come si dice, la salvezza, mi pare che ci darà il colpo finale come Repubblica parlamentare, come Stato, come comunità.
La crisi dell’ordoliberismo – del resto – non si ferma. l’Europa rischia scontri tra le nazioni potenti e pericolosissimi se non si ritroverà la saggia meditazione sulla necessità di lavorare per costruire uno stato di diritto in Europa sospendendo i Trattati e ripensando tutta l’architettura dell’Unione. Del resto l’articolo 112 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione del 2012 recita proprio in tal senso quando evoca eventi catastrofici in presenza di cui si possono sospendere tutti i Trattati tra gli Stati che reggono l’Europa funzionalista senza sovranità e senza leggi.
Vaste programme, avrebbe detto il generale De Gaulle. Ma ve n’è uno immediato: dare vita al Prestito Tremonti-Bazoli, qui già invocato, e prepararsi a non perdere un centesimo degli euro da far destinare all’Italia dal programma emanato, anche con tutti i suoi difetti. Quest’ultimo, del resto, è anche il frutto di coloro che protestano contro la politica economica di un’Europa che non si vuole così come è, ma che c’è, lo si voglia o no.
Vigilare e costruire un programma: sempre, anche se non si governa.