Gli Stati Uniti sono sempre intervenuti nelle vicende europee per stabilizzarne le ciclicità post-belliche e per ampliare l’accumulazione dei loro capitali privati, enormemente aumentata grazie alle economie di guerra che si sono succedute nella storia mondiale. Oggi siamo già immersi in un altro ciclo bellico internazionale molto più ampio dei precedenti, perché ha tra i protagonisti l’ancora forte mostro demografico cinese.



Nella Prima guerra mondiale, gli Usa hanno cercato di limitare i guasti revanscisti francesi nei confronti della Germania, agendo con il Piano Davies, e nel Secondo dopoguerra di arginare la vittoria di Stalin con l’arrivo dell’Armata Russa a Berlino blindando la Germania antisovietica e imprimendo con il Piano Marshall uno slancio impressionante alla crescita europea. Questo perché, secondo una delle costanti regole delle relazioni internazionali, occorre la presenza di un nemico esistenziale – prima fu la Germania guglielmina, dopo, vinta la guerra contro la Germania nazista e il Giappone imperiale, fu l’Urss e l’impero mondiale che si costruì.



Al fallito tentativo kissingeriano di neutralizzare la Cina seguì – anni dopo, crollata che fu l’Urss e invasa che fu dai capitali anglosferici che provocarono la reazione neo-nazionalista imperiale putiniana – la guerra in Iraq, con la divisione europea che provocò e la crescita di potenza delle monarchie del Golfo e del neo-Impero Ottomano, processi che altro non hanno fatto che aumentare il timore per la crescita esponenziale della Cina su scala mondiale.

Questo è il processo storico-generale che ha mutato e muta tutta la storia mondiale, aprendo una nuova era di confronto bellico: economico e militare – per ora su piccola scala – come la guerra in Ucraina.



La crescita internazionale cinese si è realizzata con la vittoria politica dell’ala neo-maoista nel Pcc (Xi Jinping) e la sconfitta del riformismo “pacifico” di Deng Xiaoping, anche a causa dell’incapacità Usa di proseguire nel realistico disegno di Kissinger, sprofondato com’è – l’establishment – nelle ideologie neocon della “lotta morale per la democrazia” su scala mondiale (strategia “multilateralista democratica” condotta con le guerre locali “umanitarie” che “educano i popoli” alle elezioni).

Oggi, la continuità del revanscismo russo, mistico-nazionalista, mette in pericolo la centralizzazione capitalistica che si è realizzata tra gli oligopoli industriali tedeschi ed europei e russi per via energetica e mineraria e anche la stessa concentrazione finanziario-industriale sino-nordamericana. Le contraddizioni inter-imperialiste divampano: sembra di essere ritornati ai tempi della polemica tra Kautsky e Lenin tra fine Ottocento e inizio Novecento. L’ha ricordato recentemente Pierre Grosser (L’histoire du monde se fait en Asie, Odile Jacob, Paris, 2019). La globalizzazione (ossia il super-imperialismo à la Kautsky) non pare aver fermato le contraddizioni inter-capitalistiche rivestite di statualità (l’imperialismo di Lenin). Anche qui emerge quella tendenza che Emiliano Brancaccio sempre sottolinea come contraddizione essenziale della nuova fase di “capitalismo bellico” in cui siamo immersi: la centralizzazione capitalistica modello Ue, Mercosur, Patto di Shangai non impedisce che le contraddizioni via via esplodano, per via dello sviluppo ineguale delle forze produttive e per via delle diverse ideologie che si confrontano e che guidano la stessa centralizzazione.

Pensiamo all’Italia e alla Germania: nel patto che si immagina di redigere certo trovano o troveranno, le rispettive borghesie, una via per meglio difendersi dalla distruzione economica dell’Europa insita nelle sanzioni anglosferiche alla Russia, di cui le suddette potenze (una grande, la Germania, e una media, l’Italia) son le prime a farne le spese. Esse non possono che correre a cercare di limitare i danni condividendo i rischi, creando nuove opportunità di reciprocità. E così accade con le relazioni franco-italiane, dove i trattati segreti non impediscono le guerre economiche in cui i francesi sono maestri, anche teorici, con una vastissima ed eccellente bibliografia.

Vasto disordine sotto il cielo. E questo perché gli Usa, a differenza di ciò che fecero nei precedenti cicli post-bellici prima richiamati, ora hanno deciso strategicamente di ergere a nemico principale tanto la Russia, aggressiva militarmente, quanto la Cina, aggressiva economicamente e bellicamente minacciante, con le rivendicazioni nazionaliste nel Mar Cinese Meridionale che sconvolgono l’Indo-Pacifico e i mari australi, unitamente alla penetrazione economica “a debito” in Africa e in Sudamerica. Il perno di questo ampliamento imperialista è il dominio dell’Asia Centrale e dell’Artico e quindi della Siberia, area sempre più decisiva nella lotta per il potere mondiale: dominio che i cinesi dovranno spartire con la Russia, pena l’impossibilità di proseguire in questo disegno.

La strategia Usa, oggi, è quella di indebolire tanto la Cina quanto la Russia, non solo con la risposta e la minaccia bellica, ma anche con il decoupling economico. Strategia che ha già visto importanti saggi esponenti dell’establishment Usa levare la loro voce critica contro questa sorta di pazzia ideologica, come dimostrano le sanzioni economiche imposte alla Russia, sanzioni che – con il dumping Usa neo-protezionista che paralizza la Wto – stanno distruggendo la base industriale europea: l’ha fatto la Yellen con grande coraggio e lucidità, purtroppo non seguita come avrebbe dovuto.

Nell’Ue e nelle nazioni a essa aderenti, questa situazione difficilissima e pericolosissima – per la minaccia nucleare che già incombe sul mondo (l’aggressività russa, infatti, non si fermerà senza una vittoria anche parziale) – genera comportamenti imprevisti: sono il frutto del rimescolamento profondo dei rapporti politici. I nodi vengono al pettine. La decrescita europea è in corso e la questione demografica ne è parte, unitamente alla questione dei migranti che assume sempre più i tratti funesti della tragedia, perché l’affidare al mercato la gestione di processi immensi come quelli migratori non può che produrre tragedie e criminalità neo-schiavista su vasta scala.

La pressione della tragedia imminente genera così il superamento di antiche barriere ideologiche e politiche: la von der Leyen deve – assolutamente deve – continuare a dialogare con la Tunisia con i primi ministri Rutte e Meloni per cercare di arginare i flussi migratori, quali che siano le diversità tra nazioni “formiche” e “cicale”, trattando con uno Stato in rovina come la Tunisia post-Ben Ali. E lo stesso si dovrà fare affrontando, finalmente, i problemi non soltanto dell’Africa mediterranea, ma altresì dell’Africa sub-sahariana, dove maturano le tragedie e una serie di processi che rischiano di travolgere – con l’Europa – i passi innanzi compiuti da borghesie ed élite politico-economiche africane che si stanno lentamente liberando dal fallimentare dominio francofono e dal neo-patrimonialismo imperante.

La tragedia incombe. Dobbiamo esserne consapevoli. Non è sufficiente soltanto piangere le vittime innocenti.

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